Con l’obiettivo di creare spazi di incontro autentico e ispirazione condivisa, NoiD Telecom nell’ambito delle iniziative legate al format NoiD Camminiamo, grazie alla preziosa sensibilità ed energia di Stefania Marianna Falzone, ha dato vita ad un nuovo appuntamento di networking culturale, scegliendo come cornice l’universo affascinante ribelle e visionario dell’artista italo-argentina Leonor Fini.  

La sensazione prevalente durante il percorso non è stata quella di assistere ad una mostra bensì di trascorrere del tempo con qualcuno. Qualcuno che con le sue polivalenti capacità artistiche è stata capace con oltre 100 opere tra dipinti, disegni, fotografie, video, costumi e oggetti, di imbastire in tempi (ancora) più ostili dei nostri una nuova matrice, uno stampo che contraddice il resto del mondo. 

Io sono Leonor Fini” è un viaggio esperienziale, nelle sue opere c’è ritmo, inventiva, ambiguità e soprattutto un fertile invito a deporre i bandieroni del tifo per uomini o donne in favore di interrogativi ben più vasti e profondi.

La donna, nei suoi lavori, non è musa ma protagonista e la sfinge, uno dei suoi soggetti prediletti in quanto creatura ibrida e potente, è il suo alter ego, rendendo tutto estremamente intrigante e nutriente.

Durante la nostra visita abbiamo provato un misto di sollievo, solidarietà, riconoscimento come accade quando si incontra qualcuno che sembra aver davvero imbroccato una vocazione, in questo caso verso l’indipendenza e l’affermazione della propria identità. Un grande esempio e una potente ispirazione per continuare a costruire insieme spazi più abitabili, aperti alla diversità, alle metamorfosi, al coraggio e alla bellezza.

Ripercorriamo ora il percorso, grazie al prezioso contributo di Katia Novakova guida d’eccezione dell’incontro.

Leonor Fini (1907–1996) è stata una delle artiste più affascinanti e anticonformiste del Novecento, capace di reinventare il surrealismo di Ernst, Breton, Dalì, Mirò ed Eluard donandogli una visione profondamente originale e femminista.

Nata a Buenos Aires da madre triestina e padre argentino, si trasferì a Trieste con la madre dopo la difficile separazione dei genitori. Non ricevette una formazione artistica formale. Studiò con Achille Funi al quale fu legata sentimentalmente e col quale si trasferì a Milano dove lasciò testimonianza di sé nel pavimento del Palazzo della Triennale con un mosaico da titolo “La cavalcata delle Amazzoni”.

Nel 1933 si trasferì a Parigi, dove conobbe alcuni artisti surrealisti, come Max Ernst, Paul Éluard e Victor Brauner. Pur non unendosi al movimento surrealista che contestava fortemente per la visione maschilista e limitante della donna, cominciò a sperimentarne i metodi e le tecniche.

Con Ernst che la definiva “la furia italiana di Parigi” andò a New York dove fu introdotta al MoMA e conobbe e collaborò con i più celebri stilisti del momento, tra cui Christian Dior ed Elsa Schiapparelli.

Nel suo periodo romano conobbe Alberto Moravia ed Elsa Morante e frequentò i più esclusivi salotti dell’epoca. Dagli anni ’40 agli anni ’60 lavorò come scenografa e costumista per i teatri di Roma, Londra, Parigi e New York.

Complice l’infanzia passata a travestirsi da ragazzo per sfuggire al padre che l’avrebbe voluta riportare in Argentina, Fini ha sempre concepito l’identità come una costruzione fluida e mutevole, una continua rappresentazione di sé attraverso maschere, costumi ed alter ego.  

Curiosità


🎭 Rifiutò di unirsi ufficialmente al Surrealismo

Pur essendo in stretto contatto con i surrealisti – come Max Ernst, André Breton e Salvador Dalí – Leonor rifiutò l’autorità e la visione di Breton e non si considerò mai parte del movimento, difendendo sempre la sua autonomia artistica. La donna non è più una musa, una dea un’ispirazione ma è padrona del suo destino.

🐱 Viveva con oltre 20 gatti

Fini era un’amante dei gatti: ne possedeva fino a 23 contemporaneamente, li trattava come creature regali, li vestiva con collari di velluto e spesso li ritraeva nei suoi dipinti. In molte opere sono simboli di potere magico e sensualità femminile.

💄 Teatro, cinema e moda

Fini lavorò come costumista e scenografa per spettacoli teatrali, balletti e opere liriche. Creò i costumi per la celebre versione del “Romeo e Giulietta” con Margot Fonteyn e Rudolf Nureyev, e anche per il film cult “La bella e la bestia” (1946) di Jean Cocteau.

Fu amica di Elsa Schiapparelli per la quale creò una boccetta a forma di busto femminile per il profumo Shocking ispirandosi alle forme dell’attrice statunitense Mae West.

❤️ Vita privata

Rompendo ogni convenzione, Leonor visse per anni con due uomini, Konstanty Jeleński (Kot) e Stanislao Lepri, in una relazione poliamorosa e creativa. Tutti e tre si sostenevano artisticamente, e la loro convivenza era improntata all’arte, alla libertà e alla non gelosia.

📚 Scrisse e illustrò libri

Non fu solo pittrice, ma anche autrice e illustratrice. I suoi libri sono popolati da creature androgine, mostri seducenti, donne guerriere, in un immaginario ricco di simbolismo erotico e mitologico.

Opere


🎨 l’Alcova (1941) e l’Alcova: interno con tre donne (1939)

In questa tela, Fini rovescia la tradizionale iconografia della Venere dormiente: qui è la donna a dominare la scena, seduta su un uomo nudo, passivo e abbandonato. Un’opera che anticipa di decenni le riflessioni sullo sguardo femminile nell’arte e sulla sovversione dei ruoli di genere. Anche “Donna in armatura” (1938) e l’”Alcova: interno con tre donne” (1939) rientrano in questo filone, proponendo una figura femminile ieratica e marziale, vestita di un corsetto metallico che richiama l’iconografia delle amazzoni. Un altro elemento centrale della sua poetica è il travestimento, che emerge in opere come “Ritratto di André Pieyre de Mandiargues” (1932), in cui il poeta appare ambiguamente vestito, sfidando la distinzione tra maschile e femminile. Fini concepisce l’identità come una costruzione fluida e mutevole, una continua rappresentazione di sé attraverso maschere, costumi e alter ego. “l’Alcova” (1941) 
 
“l’Alcova: interno con tre donne” (1939)  

💄 Lo stereotipo della Venere dormiente:

Lo stereotipo della Venere dormiente è un tema ricorrente nell’arte e nella cultura visiva occidentale, che rappresenta una donna nuda o seminuda raffigurata mentre dorme, spesso in una posa languida e idealizzata. Questo soggetto prende il nome da alcune famose raffigurazioni di “Venere”, la dea romana dell’amore, della bellezza e del desiderio, fatte da artisti come Tiziano “La Venere di Urbino” e Giorgione.

🔮 Giochiamo

Ogni vota che osserviamo un’opera d’arte giochiamo a trovare l’eventuale bias di genere implicito. In che posizione è la donna? Cosa indossa? Dove sta guardando?

💥 Creiamo

Quando scattiamo una foto di un’amica, di una figlia, di una donna in generale focalizziamoci sul suo sguardo, privilegiamo un’espressione – anche del corpo – naturale, libera e determinata e mai compiacente. Fai che sia soggetto di ciò che stai rappresentando e non solo oggetto dello sguardo altrui.

🖼️ “La Bergère des Sphinx” (1941) è una delle opere più complesse e simboliche di Leonor Fini, perfetto emblema della sua visione del femminile, della mitologia e della psiche. È molto più di una scena onirica: è una potente dichiarazione di identità e autorità femminile, che sovverte gli stereotipi tradizionali e riscrive i ruoli del mito. Fini propone un nuovo archetipo femminile: non la donna musa, non la donna madre, non la donna amante, ma la donna guardiana, creatura mitica, soggetto di potere. Con questo quadro, Fini prende posizione all’interno del Surrealismo (che spesso idealizzava ma anche oggettificava le donne) e afferma la propria visione di un surrealismo femminile e matriarcale, capace di riscrivere i codici visivi e simbolici.  

💄 Lo stereotipo della pastorella vittoriana

Nella tradizione iconografica ottocentesca – in particolare quella vittoriana – la pastorella rappresenta l’innocenza rurale: una donna semplice, pura, modesta, legata alla natura.

La sua femminilità è idealizzata: fragile, graziosa, vestita con abiti leggeri, spesso con un cappello di paglia e una pecora al fianco.

La pastorella è docile, quasi quanto le pecore che accudisce.  È dolce, mite, protetta o da proteggere; raramente è autonoma.

Allo stesso tempo è un oggetto romantico o erotico, sovente raffigurata come figura desiderabile ma inaccessibile, verginale e sottomessa, al servizio della fantasia maschile.

🔮 Giochiamo

Proviamo a cambiare lo sguardo.

Quando osserviamo un quadro, non soffermiamoci solo sul soggetto principale, ma cerchiamo gli oggetti e i personaggi secondari che troviamo dipinti sulla tela.

In questo caso abbiamo le sfingi e i gusci d’uovo.

Tradizionalmente, la sfinge è una creatura enigmatica, temibile, che sottopone l’eroe a una prova (come in Edipo). Fini ribalta il significato: le sfingi non pongono enigmi agli uomini, ma sono legate tra loro da una solidarietà femminile e magica. Le sfingi di Fini non custodiscono segreti per gli altri, sono esse stesse il segreto, un segreto condiviso.

I gusci d’uovo spezzati sono un motivo ricorrente in Fini e alludono alla nascita, alla trasformazione, ma anche alla rottura di ciò che è chiuso, imposto o costruito artificialmente. Sono simboli di una nuova identità che emerge, non più definita da regole patriarcali.

💥 Creiamo

Come Leonor Fini, proviamo a decostruire alcuni stereotipi fondamentali della rappresentazione femminile:

ogni volta che siamo con colleghi, amici, conoscenti rappresentiamo la donna come una figura attiva, autonoma, centrale non solo nell’accudimento del prossimo ma nelle scelte strategiche, economiche e di indirizzo della comunità in cui opera.

Non diciamo: “Aiuto la mia compagna/il mio compagno mi aiuta”.  Questo linguaggio suggerisce che la responsabilità dell’accudimento sia esclusivamente della donna.

Raccontiamo come ci siamo suddivisi il lavoro e valorizziamo il ruolo di tutti, anche il ruolo della donna, ponendo l’accento su una responsabilità condivisa.

🖼️ “La zattera” (1941)   In questo quadro Fini stravolge il mito del naufragio trasformandolo in un simbolo di riscatto ed autonomia femminile. Come la maggior parte dei quadri dell’artista, anche questa tela si presta a molteplici interpretazioni. Di sicuro però la donna diventa padrona del proprio destino e possiamo immaginare che essa, nella sua consapevolezza, abbia teso la mano all’altra donna aiutandola e salvandola. Tuttavia, nella scena che osserviamo, nessuna delle due donne ha bisogno di essere salvata ed il loro sguardo suggerisce una collaborazione tra pari. La zattera può essere letta come la precarietà della vita umana; tuttavia, le donne sulla zattera non sono vittime ma sono forti e consapevoli.

💄 Lo stereotipo della damigella in pericolo

Lo stereotipo della “donna da salvare” (in inglese “damsel in distress“) è un modello narrativo e culturale in cui la figura femminile viene rappresentata come debole, passiva, bisognosa di aiuto e incapace di cavarsela da sola. È un archetipo molto diffuso nelle fiabe, nella letteratura, nel cinema, nei videogiochi e nella pubblicità.

Fini stravolge questo stereotipo presentando una donna forte, consapevole, padrona del proprio destino che non cerca aiuto ma essa stessa aiuta chi è in difficolta.

E noi, quale ruolo vogliamo avere?

A cura di Stefania Marianna Falzone e Katia Novakova

 

Segui la Pagina LinkedIn di NoiD ♀
Segui NoiD su Twitter ♀
INSTAGRAM
Torna in alto

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" acconsenti al loro utilizzo.

Chiudi