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Le parole nuove entrano nelle nostre vite di continuo. Alcune non sopravvivono a lungo, sono solo la moda del momento. Altre permangono. Quello che conta è la loro funzione: comunicare. Anche far riflettere. 

Il linguaggio definisce e nel farlo esclude qualcosa o qualcuno. Le parole definiscono il modo di comunicare, di far sentire gli altri e dicono molto su chi parla a chi ascolta. 

a cura di Federica De Felici  

/ˈɔt.to ˈmar.t͡so/

L’8 marzo si celebra la Giornata internazionale dei diritti della donna, una data che ricorda le lotte e le conquiste delle donne per i loro diritti politici, sociali ed economici e la denuncia delle violenze e delle discriminazioni da esse subite.

Istituita dalla Nazioni Unite nel 1975, la ricorrenza ha lo scopo di ribadire l’importanza del raggiungimento dei diritti e dell’emancipazione delle donne. Oggi viene celebrata in oltre 100 paesi.

Non è la festa della donna

Nella cultura popolare l’8 marzo è la festa della donna.

Per anni si è assistito alla dinamica del permesso consentito, ovvero un giorno bonus che autorizzava a comportarsi talvolta come un certo tipo di uomo. Tra mimose e serate a tema c’è (e c’è ancora!) la tossicità che alimenta stereotipi e pregiudizi sulle differenze di genere, il ruolo della donna nella società, e chi più ne ha più ne metta.

Spoiler: non c’è niente da festeggiare!

Le origini e falsi miti

È ricorrente il falso mito che la Giornata dei diritti della donna nasca da un incendio. La storia di questa giornata è legata a diversi eventi storici significativi, tutti volti al riconoscimento dei diritti delle donne eche hanno avuto luogo all’inizio del XX secolo, tra cui:

  • Il VII Congresso della II Internazionale socialista nel 1907, dove si discusse della questione femminile e del voto alle donne.
  • La conferenza “Woman’s Day” di Chicago nel 1908, organizzata da Corinne Brown che puntava a sfruttamento lavorativo e diritto di voto.
  • Lo sciopero delle operaie delle industrie tessili a New York nel 1908 per denunciare le condizioni di lavoro.
  • La conferenza Internazionale delle donne tenuta a Copenaghen nel 1910 per il riconoscimento del diritto di voto.
  • L’incendio della fabbrica Triangle che causò la morte di 123 donne e 23 uomini. L’incidente diede il via a nuove leggi sulla sicurezza sul lavoro e aumentò le adesioni a uno dei più importanti sindacati degli States, l’International Ladies’ Garmen Workers Union. 

Questi sono solo alcuni degli esempi di eventi storici realmente accaduti e che hanno dato le origini a quella che oggi è laa Giornata Interazionale dei diritti della donna, ben lontana quindi da festeggiamenti e molto vicina alle lotte e alle conquiste che ancora oggi le donne portano avanti.

Le principali lotte di oggi

Le principali lotte delle donne oggi si concentrano su vari aspetti sociali, economici e politici. Tra queste, le più rilevanti includono:

  • uguaglianza sul lavoro
  • diritti riproduttivi
  • work-life balance

/aˈdʒɛizmo di ˈdʒɛnere/

Ageismo è un adattamento dall’inglese ageism, che a sua volta deriva da age (età). Con questo neologismo ci si riferisce a una forma di pregiudizio legata all’età, all’invecchiamento.

Ageismo di genere esprime l’intersezionalità tra due discriminazioni: la svalorizzazione che consegue all’avanzare degli anni e l’essere donna. Una combinazione di stereotipi e pregiudizi che limitano le opportunità di chi appartiene a entrambe le categorie.

Cosa cambia nell’invecchiamento tra uomo e donna? Nulla! È solo questione di percezione e bias. Avete mai sentito l’espressione “Le donne invecchiano peggio degli uomini?” Molti studi biologici asseriscono il contrario, eppure è credenza comune che se la donna invecchia, l’uomo diventa più affascinante.

Dunque, a tutti i pregiudizi a cui una donna deve far fronte, nel corso del tempo, si aggiungono anche quelli legati all’invecchiamento.

Come tutte le discriminazioni, anche l’ageismo di genere ha delle conseguenze negative in chi le subisce (redditi più bassi, alto rischio povertà, educazione e istruzione, isolamento sociale, problemi legati alla salute, ecc).

Contrastare lo stereotipo legato all’ageismo di genere

Superare i pregiudizi dell’ageismo di genere è possibile.

È sempre necessario lavorare sulla cultura e sull’educazione delle persone, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti. Anche nelle aziende.

Per esempio, all’ageismo spesso è dedicato un vero filone delle pratiche di Diversity, Equity & Inclusion con lo scopo di aiutare risorse senior e junior a coesistere nello stesso ambiente, per lavorare fianco a fianco superando rispettivi pregiudizi.

Senza questi piani attivi e senza una solidarietà intergenerazionale, il rischio nei turn over è di perdere prezioso know-how da un lato e giovani talenti dall’altro

/’ælai/

Ally è il prestito dalla lingua inglese della traduzione in italiano di alleatə.

Nell’uso più comune definisce una persona che si schiera a favore di un gruppo o di una causa, anche se non fa parte direttamente di quel gruppo: donne, comunità LGBTQ+, ambito disability o racial. Questo termine è spesso utilizzato in contesti di attivismo e lotta per i diritti civili.

Non sono una donna, posso essere alleatə delle donne? 

Sì!

Le persone alleate giocano un ruolo cruciale nel colmare il divario di genere. Sono persone che, pur non appartenendo direttamente al gruppo, si impegnano attivamente a favore dell’uguaglianza di genere e e per la parità di genere.

Ad esempio, nel mondo del lavoro le persone alleate possono essere anche responsabili di struttura, manager che promuovono la parità salariale o scelgono le donne per le posizioni apicali.

/ˈbaɪəs/

Bias significa pregiudizio. Prendiamo il termine in prestito dall’inglese e lo usiamo in italiano sia per il singolare che il plurale: “a strong feeling in favour of or against one group of people, or one side in an argument, often not based on fair judgement” (Oxford Leaner’s Dicfionary).

Si tratta di preconcetti, ovvero di idee concepite sulla base di opinioni superficiali, il che può portare ad assumere atteggiamenti discriminatori verso qualcosa o qualcuno. In questo senso, i bias possono essere pericolosi perché hanno una enorme influenza sulle nostre credenze e dunque sui comportamenti, generando un impatto negativo nei posti dove ci troviamo (la casa, il lavoro, ecc). Si tratta di distorsioni della realtà, filtri non oggettivi attraverso cui guardiamo il mondo.

Gli unconscious bias sono pregiudizi impliciti che adottiamo a livello inconscio, inconsapevolmente.

Dal punto di vista antropologico, il pregiudizio è una specie di alleato del cervello. È il filtro che consente all’essere umano di sopravvivere: seleziona cose e persone dell’ambiente circostante per riconoscerle e capire se può fidarsi, se non minacceranno la sua esistenza. Un meccanismo del cervello molto utile quando l’uomo viveva nelle grotte, cacciava e lottava per vivere ogni istante.

In senso lato, dunque, il pregiudizio è quello che oggi permette di identificarci o meno con la persona che abbiamo davanti e al nostro cervello di mandarci un alert (il bias, il pregiudizio) che identifica quella cosa o persona come non-conosciuta, altro da noi. L’evoluzione culturale e sociale di cui l’essere umano può vantarsi rispetto ad altre specie consente di trasformare il pregiudizio in occasione di arricchimento e conoscenza.

Quanti tipi di bias esistono?

Tantissimi! Prendiamo qui ad esempio due bias che hanno a che fare con la sfera dell’inclusione:

  • bias di genere: si valutano (o auto-valutano) le donne secondo falsi stereotipi che legano il genere femminile all’accudimento, alle materie umanistiche, alla poca propensione a ricoprire ruoli apicali (ecc);
  • bias etnico: il cervello tende a valutare meglio le persone che appartengono allo stesso gruppo etnico

Superare i bias

Identificare i propri pregiudizi non è semplice ma è possibile.

Occorre innanzitutto accettare di averne, quindi non negarne l’esistenza. 

In secondo luogo, è necessario mettere in dubbio le proprie convinzioni per considerare nuovi punti di vista. Per poterlo fare, sarebbe bene circondarsi di persone quanto più dissimili da noi per arricchirci con opinioni diverse. 

Bias e Intelligenza Artificiale

Nel calderone del linguaggio quotidiano rientrano talvolta alcuni termini che fino a poco tempo fa appartenevano alla sfera informatica e ingegneristica.

Si parla di prompt engineering per definire il linguaggio tra la macchina (l’AI) e l’essere umano, cioè l’interazione che c’è tra ChatGpt, per esempio, e una qualsiasi persona che chiede una qualsiasi cosa.

Si parla di Model bias, invece, per esprimere una delle tante sfide del prompt engineering: i data set potrebbero riflettere bias e pregiudizi, quindi chi programma dovrebbe essere in grado di evitarli.

Anche chi chiede dovrebbe essere in grado di usare un linguaggio inclusivo scevro da stereotipi.

Quella dell’Intelligenza Artificiale è una rivoluzione a cui tutte le persone sono chiamate a prenderne parte, attivamente.

/ˈbɒdiː ˈʃeɪmɪŋ/

Il bodyshaming è una forma di violenza che mira a offendere la persona oggetto di derisione per l’aspetto fisico.

Si tratta di una pratica che colpisce chiunque, é un fenomeno trasversale a genere, età e background culturale e migratorio.

Gli adolescenti – che subiscono di più la pressione sociale – sono tra i più colpiti e sono anche tra coloro che accusano di più il colpo. Ma non solo. Il bodyshaming che va a braccetto con bullismo, cyberbullismo, stalking e molestie tocca tutti gli ambienti, anche quelli di lavoro. Talvolta le battute, i commenti sono insieme offensivi e tendenziosi. Insomma, una battuta non é mai solo una battuta, porta con sé anche provocazione, derisione con l’intento di mettere la vittima nelle condizioni di stare a disagio, nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore delle ipotesi porta alla depressione e all’autoesclusione da un gruppo sociale. 

Nei casi più estremi, fare bodyshaming può trasformarsi in istigazione al suicidio e dunque diventare reato.

Interiorizzazione: l’autocritica tossica

Il bodyshaming può anche essere interiorizzato, in altre parole noi potremmo essere i nostr* peggior* nemic*. Provare disagio o disprezzo per una o più parti del corpo, enunciando autocritiche continue non aiuta. Questa pratica è anche definita stigmatizzazione.

I corpi ideali non esistono. Quello che esiste è l’idealizzazione di modelli standard e stereotipati di cui si è vittime, spesso anche a causa dell’impatto dei social media.

Quanti tipi di bodyshaming esistono?

Tantissimi, i più comuni sono il Fatshaming legato alla grassezza e il Thinshaming legato alla magrezza.

Iniziamo a parlare di bodypositivity 

Nel 1996 nasce il movimento sociale per la lotta alla derisione del corpo con lo scopo di abbandonare i canoni di bellezza dettati dalla moda e abbracciare una filosofia che vede la salute al centro dell’attenzione.

/kátkoːlɪŋ/

Fare Catcalling oggi significa molestare verbalmente e gestualmente qualcun* in un luogo pubblico fisico o virtuale. 

Gli apprezzamenti sono di natura sessuale e volgari, anche minacciosi. Questi incutono sdegno e/o timore nella vittima. 

Fischi, commenti e battute, insomma nulla di nuovo sotto al sole. Di nuovo c’è solo che se ne parla, iniziando col dare un nome esatto al fenomeno. 

Non tutti sanno che… 

Il neologismo deriva dall’inglese to catcall, il verbo che indica il miagolio lamentoso dei gatti. Il termine però non é nuovo, infatti è stato ripreso dal 1700, quando le persone fischiavano a teatro gli attori non graditi. 

/empaʊərˈment/

Empowerment è una parola inglese e significa “potenziamento”.

Nel più comune uso indica quel processo che mira a far acquisire alle persone o ai gruppi più libertà, potere e controllo sulla propria vita. Si basa sull’incremento dell’autostima e dell’autodeterminazione, che poggia innanzitutto sul saper fare e prosegue con la cura della consapevolezza del proprio valore.

La bella notizia è che l’empowerment si può allenare allo scopo di scoprire le proprie potenzialità, superare gli ostacoli e raggiungere i propri obiettivi. 

Può riguardare diversi ambiti, dal personale al professionale. 

L’empowerment e le donne

Sempre più spesso si associa la parola empowerment a women per indicare quel processo di conquista di libertà, potere e controllo sulla vita delle donne, sia a livello personale che collettivo. 

Il women empowerment è anche un obiettivo delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile, che mira a raggiungere l’uguaglianza di genere e l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione e violenza contro le donne e le ragazze. 

/fem·mi·nì·sta/  

Femminista è una persona di qualsivoglia età, genere, etnia, religione. 

Chiunque (ma davvero chiunque!) può esserlo, sebbene il movimento sia stato iniziato dalle donne, per sopravvivenza.  

La persona femminista riconosce la parità di genere e si attiva per contrastare il gap che vi si ritrova in società, in qualsiasi ambito. 

Anche chi non svolge attivamente un ruolo per contrastare i divari ma supporta la causa può senz’altro definirsi femminista. Oggi definirsi tale è una chiara presa di posizione rispetto non solo alla parità di genere ma anche contro qualsiasi forma di molestia o violenza nei confronti delle donne.  

Femminista si nasce o si diventa? 

Entrambe! La risposta dipende dall’epoca in cui si è nati e cresciuti, il contesto familiare e sociale, il luogo in cui si vive. Molte persone maturano la consapevolezza femminista nel corso della propria vita. Le generazioni future forse avranno più probabilità di nascerci. 

Il femminismo impatta solo le donne? 

No. Basti pensare alla questione Tampon Tax , un esempio molto pratico di convenienza economica che riguarda la tassazione degli assorbenti, non ritenuti beni di prima necessità. A comprare gli assorbenti non sono solo le donne. Papà, mariti, fratelli e compagni… confermate? 

Andando oltre questo esempio, si potrà asserire che il femminismo salva l’uomo, inteso come maschio, dalla narrazione maschilista tossica. Anche gli uomini infatti sono vittime del sistema patriarcale rendendoli vittime di pregiudizi e stereotipi. Neanche gli uomini sono liberi. La libertà è dunque una illusione per entrambi i generi.  

Femminismo intersezionale: non è una moda.  

Più facili a farsi che a dirsi.  

La sociologa Kimberlé Crenshaw la definì così: Intersectionality is a lens through which you can see where power comes and collides, where it interlocks and intersects. It’s not simply that there’s a race problem here, a gender problem here, and a class or LBGTQ problem there.  

Sostanzialmente spiega che i concetti di genere, classe e background culturale e migratorio si intersecano. 

Con Womanism intendiamo invece l’esperienza femminista delle donne nere. Il termine è stato usato per la prima volta dalla scrittrice Alice Walker, che scrisse: Womanist is to feminist as purple is to lavender. 

Cenni storici: 

La storia del femminismo è talmente vasta e ricca che è stata suddivisa in ondate. E c’è una tale letteratura da poter riscrivere la storia (più o meno dall’Illuminismo in avanti) che si fa fatica a capire per quale motivo le due discipline non siano ancora state integrate, fornendo agli studenti strumenti di comprensione e diversi punti di vista. Stiamo parlando infatti di uno dei più grandi movimenti sociali della società moderna.  

“Ma la storia l’hanno fatta gli uomini, con i loro grossi missili” qualcuno dirà. 

  • La prima ondata nasce intorno all’800, anche se si parla di un protofemminismo (tra cui il dibattito della querelle de femmes) che ne anticipava il movimento. Si lottava per la libertà e i diritti fondamentali tanto nella società quanto in casa, quali l’accesso all’istruzione, il diritto di voto, l’emancipazione dal ruolo di moglie e madre. In poche parole le femministe della prima ondata hanno messo le basi dell’emancipazione femminile attuale. 
  • La seconda ondata va circa dal 1960 al 1980. Si lotta contro la violenza domestica, la libertà sessuale e diritti riproduttivi, il divorzio. 
  • La terza ondata va 1990 al 2000 circa. L’epoca dell’intersezionalità e numerose declinazioni tra cui l’ecofemminismo, il transfemminismo ed il femminismo postmoderno. 
  • La quarta ondata è quella che stiamo vivendo oggi e si punta a risolvere il divario salariale (gender pay gap), contrastare le molestie sessuali e di genere, favorire la cultura della genitorialità condivisa, dare dignità al lavoro di cura.  

Pare che le ondate si stiano via via sempre più accorciando (sarà merito delle tech?) e questo dà ben sperare: più che sul risultato ottenuto è sulla consapevolezza che si sta andando molto avanti come la questione economica, giusto per citare un tema. 

Speriamo di non perderci dei pezzi strada.  

Il patriarcato. 

Non si può accennare al femminismo senza interpellare anche il patriarcato - anche Barbie ne parla, e Ken ne giova. Termine pesante quanto il suo significato, sillabandolo si sente quasi il rumore dei passi di Godzilla, che risuonano a ogni sillaba: /pa·triar·cà·to/ . Che non è esattamente il contrario di matriarcato. Oggi l’uso è da attribuire prevalentemente al sistema sociale in cui è l’uomo ad avere il potere. Quindi con società patriarcale si intende esattamente un sistema a favore degli uomini. 

“Ah sei femminista! Che palle!” 

Il ritratto della femminista visto dagli occhi di chi non lo è intriso di pregiudizi e stereotipi. Il ritratto, dicevo, è quello di una donna scontrosa, scortese, antipatica e abbrutita dalla vita. Insomma, una strega (come quelle che mettevano al rogo). 

Spoiler: non è così! 

Ma quante supposizioni devono beccarsi le donne che dichiarano di essere femministe? In questa storia, gli uomini non sono i cattivi né le vittime, molti sono dei grandi alleati e altri potrebbero esserlo.

/ˈdʒen.də data ˌgæp/

Il gender data gap o divario di dati di genere è la mancanza o l’incompletezza di dati disaggregati per genere che riflettano la realtà delle donne e delle ragazze in tutta la loro diversità.

È come fare un’indagine di mercato dove gli unici a essere intervistati sono uomini. I risultati rifletterebbero solo gusti, necessità, abitudini, aspirazioni, difficoltà del genere maschile, lasciando scoperta una grande fetta di mercato.

Ipotizziamo poi che su questi risultati si basa una società, con le sue regole.

Chi resta fuori dai giochi?

Un mondo customizzato sugli uomini

La raccolta e l’analisi dei dati di genere sono spesso trascurate, e questo dipende da vari fattori, come la limitata disponibilità di dati, competenze e fondi, e l’influenza di pregiudizi e stereotipi di genere sui criteri e le tecniche usati per produrre i dati.

Questo gap di dati di genere ha molte ripercussioni negative, come la bassa partecipazione e riconoscimento delle donne e delle ragazze nelle scelte pubbliche e private, la violazione e la negazione dei loro diritti umani, la mancanza di opportunità economiche e sociali, ecc.

Alcuni esempi

Un esempio di conseguenza negativa del gender data gap in Italia nell’ambito di prodotti e consumi è la scarsa adattabilità dei prodotti alle esigenze e alle preferenze delle donne. Infatti, molti prodotti sono progettati e testati su campioni prevalentemente maschili, ignorando le differenze di genere in termini di dimensioni, forma, peso, sensibilità, sicurezza e funzionalità:

  • Le automobili: i crash test sono fatti con manichini che imitano il corpo medio degli uomini, e questo fa sì che le donne abbiano più possibilità di riportare lesioni gravi in un incidente stradale rispetto agli uomini
  • I farmaci: le donne subiscono più effetti collaterali e traggono minori vantaggi dai farmaci, perché la maggior parte delle sperimentazioni cliniche sono fatte su soggetti maschili, umani o animali. Questo non considera le differenze di genere in termini di metabolismo, ormoni, immunità e interazioni con altri farmaci
  • AI: un altro esempio è la scarsa rappresentazione delle donne nella tecnologia e nell’intelligenza artificiale. Questo può influenzare la progettazione e lo sviluppo di prodotti, servizi e applicazioni che non tengono conto delle esigenze, delle preferenze e delle esperienze delle donne.

/ˈdʒɛndər hɛlθ deɪtə ɡæp/

Con l’espressione gender health data gap ci si riferisce alla mancanza di dati specifici per genere nella ricerca medica e nella salute pubblica.

La carenza di informazioni specifiche per genere può compromettere la qualità dell’assistenza medica e ostacolare la comprensione delle necessità sanitarie delle donne.

Per esempio, se i farmaci vengono testati prevalentemente sugli uomini, potrebbero non essere altrettanto efficaci sulle donne o potrebbero causare effetti collaterali diversi.

Inoltre, la sottorappresentazione di informazioni basate sul genere può causare un ulteriore gap nell’individuare problemi sanitari che interessano soprattutto le donne.

Di conseguenza, il gender health data gap rappresenta un’importante problematica che necessita di essere affrontata per assicurare che la ricerca medica e le politiche di salute siano paritarie per tutte le identità di genere.

/ˈdʒen.də ˌgæp/

La traduzione in italiano è divario di genere, cioè la differenza di opportunità, diritti e status tra uomini e donne in vari ambiti come l’istruzione, il lavoro, la salute, la società, la politica e l’economia. Si tratta di una disparità che limita le opportunità e i diritti delle donne, e che ha conseguenze negative sia a livello individuale che collettivo. 

Il gender gap si misura attraverso diversi indicatori, come il tasso di occupazione, il reddito medio, il livello di istruzione, la salute, la rappresentanza politica e la partecipazione alla vita pubblica.

Il Gender Gap in Italia

Il gender gap è un fenomeno globale, che riguarda anche i paesi Europei e l’Italia, dove le donne sono ancora discriminate e sottorappresentate in molti settori.

Secondo il Global Gender Gap Report 2023, pubblicato dal World Economic Forum, l’Italia si trova al 79° posto su 146 paesi nel mondo per quanto riguarda la parità di genere, perdendo 16 posizioni rispetto al 2022. 

Gen Z e Gender Gap

La Gen Z (o generazione Z), composta dai nati tra il 1997 e il 2012, è considerata la più diversa e inclusiva della storia. Quest* giovani sono cresciut* in un mondo globalizzato, digitale e multiculturale, e hanno sviluppato una maggiore consapevolezza e sensibilità verso le tematiche sociali, tra cui la parità di genere.

La generazione Z può contribuire a ridurre il gender gap in vari modi, tra cui:

  • Educarsi e informarsi sulle cause e le conseguenze della disparità di genere, e sensibilizzare gli altri al rispetto e alla valorizzazione delle diversità.
  • Sostenere e partecipare a iniziative e movimenti che promuovono la parità di genere, come il femminismo, il Me Too, l’He for She, ecc.
  • Opporsi e denunciare ogni forma di discriminazione, violenza, molestia o stereotipo basato sul genere, sia online che offline.
  • Scegliere liberamente il proprio percorso di studio e di lavoro, senza lasciarsi condizionare da pregiudizi o aspettative sociali legate al genere.
  • Richiedere e favorire politiche e pratiche di pari opportunità, trasparenza retributiva e conciliazione tra vita privata e professionale nelle organizzazioni in cui operano o aspirano a operare.
  • Essere consapevoli e responsabili del proprio ruolo nella società, e agire in modo coerente con i propri valori e principi.

Questi sono solo alcuni esempi di azioni che la generazione Z può intraprendere per cambiare la cultura e contribuire a ridurre il gender gap, creando una società più giusta e inclusiva.

/ˈliːdərʃɪp/

La leadership è la capacità di ispirare, guidare e influenzare le persone. Deriva dal verbo inglese “to lead”, che significa “guidare”, “condurre” o “comandare”.

Per essere leader occorre avere una comunicazione efficace, saper prender decisioni e assumersene le responsabilità, gestire il capitale umano.

C’è chi dice che si tratti di una dote innata e chi pensa che si possa imparare ad essere leader.

La differenza è come si esercita questo enorme potere di influenza. A tal proposito, questa parola è stata fortemente , come se il solo sostantivo non fosse sufficiente e necessitasse di ulteriori caratterizzazioni: c’è la leadership gentile, quella efficace, quella autocratica, quella femminile, quella di trasformazione, quella democratica e poi c’è la leadership inclusiva. 

La leadership inclusiva

Con leadership inclusiva ci si riferisce a un approccio che si concentra sull’assicurare che tuttə si sentano valorizzatə, apprezzatə e motivatə. 

Questo stile di leadership promuove la diversità e l’inclusione come elementi chiave per il successo aziendale.

Essere leader inclusivə vuol dire avere consapevolezza dei propri pregiudizi e gestirli, promuovere le diversità come risorse di valore, favorire un ambiente in cui tuttə si sentano inclusə e orientatə al raggiungimento comune degli obiettivi, diffondere la cultura del feedback mettendosi in primo luogo in discussione. 

Leadership e donne

Uno fra gli stereotipi più comuni associa l’uomo al comando e la donna all’obbedienza, limita quest’ultima a figura fragile, incapace di prendere decisioni o di guidare qualcosa o qualcunə.

Solo di recente si sta tentando di sdoganare questo pregiudizio e avvicinare la parola leadership alla parola donna. Il più delle volte con risultati maldestri, che al posto di smentire tendono ad associare la donna a caratteristiche come pacatezza o remissione.

Il punto è accettare che esiste un’altra leadership, diversa, altrettanto efficace e che non scimmiotta comportamenti maschili.

Una leadership lontana da espressioni “quella è una donna con le palle!”.

Non sono i connotati degli uomini, né la loro virilità a essere da modello né necessari affinché alla donna venga riconosciuta la sua leadership.

/ˈmænspleɪnɪŋ/

La parola mansplaining è formata da man (uomo) e da splaining che deriva da to explain (spiegare.) Significa letteralmente “uomini che spiegano cose. Ma cosa spiegano? E soprattutto… perché?

Entrando un po’ più dentro rispetto all’accezione comune, l’espressione definisce uomini che spiegano cose a donne, in modo supponente, sicuro di sé e semplificato. Lo scopo? Screditare l’interlocutrice.

Appare evidente, dunque, che il termine si connoti di virilità e paternalismo.

Probabilmente c’entra anche l’educazione con cui le donne sono cresciute: stai composta, non alzare la voce, non interrompere, sii cortese, fai la brava. Quella stessa educazione che in alcuni contesti, forse e per eccesso di cortesia, impedisce alle donne di zittire l’interlocutore che le ha prepotentemente tolto la parola.

Mansplaining è la parola per definire questo fenomeno in cui gli uomini mettono a tacere le donne. Un atteggiamento molesto e sessista.

Curiosità:

La scrittrice Michela Murgia ha scritto:

“il #mansplaining (o minchiarimento) è quella cosa per cui un uomo spiega qualcosa di cui non sa niente a una donna che invece la sa benissimo.”

La sociolinguista Vera Gheno ha detto:

quando ad ogni parola di donna un uomo interviene a spiegare come un patriarca, perché lui la sa più lunga”.

Quanto alla traduzione italiana del termine, il Grande Dizionario di Inglese di Hoepli lo traduce con spiegazione maschia.

/maskoliˈnita tosˈsika/

La mascolinità è il complesso di caratteristiche tradizionalmente associate agli uomini, come aspetto fisico o psicologico, aspettative, gusti, modi di fare ecc. Si può tranquillamente affermare che l’idea stessa di mascolinità, intesa come contrapposto della femminilità, rientra a buon titolo nella categoria degli stereotipi di genere e che confina col binarismo uomo/donna, una realtà che non lascia spazio al neutro e alla fluidità.

Con mascolinità tossica si intende invece l’insieme di atteggiamenti socialmente regressivi associati a una certa idea di mascolinità. 

Promozione del dominio del maschio alfa, svalutazione delle donne, misoginia e omotransfobia sono alcuni esempi chiave di quello che racchiude l’espressione.

Tra le caratteristiche che denotano la mascolinità tossica rientrano l’essere fisicamente forti, emotivamente insensibili, l’anti-femminilità, cioè il rifiuto a tutto ciò che è considerato femminile, il potere inteso come status e controllo ottenuto attraverso l’aggressività e infine la violenza.

Liberazione dal super maschio e benefici

Superare l’idea di maschio alfa e di mascolinità tossica è una possibilità liberante che riguarda tanto le donne quanto gli uomini e che beneficia la società stessa. Per farlo si possono adottare alcuni semplici approcci che promuovono un’idea più sana e inclusiva. Ecco alcuni passi che possono aiutare:

  1. Capire l’origine della mascolinità tossica e riconoscere che certi stereotipi possono portare a comportamenti dannosi.
  2. Riconoscere i segnali di allarme per essere consapevoli di atteggiamenti che rientrano nella mascolinità tossica.
  3. Accettare che per essere uomo non c’è un unico modo di essere o comportarsi.
  4. Sfidare gli atteggiamenti binari di genere: rifiutare l’idea che uomini e donne debbano aderire a ruoli rigidi e opposti.
  5. Essere aperti a esprimere e condividere emozioni in modo costruttivo.
  6. Costruire relazioni sane basate su rispetto e comprensione reciproca.
  7. Opporsi a sessismo, misoginia e omotransfobia: prendere posizione e distanza contro le discriminazioni e promuovere l’uguaglianza.

Superare la mascolinità tossica può portare solo benefici.

Gli uomini potrebbero sperimentare la fine dell’ansia da prestazione, il dover soddisfare aspettative di genere irrealistiche ed esprimere liberamente le proprie emozioni.

La società ne gioverebbe con la fine della violenza di genere e del sessismo. 

/mo’lɛstja/

La molestia è un atto fisico, verbale o non verbale, non desiderato che discrimina per genere, età, etnia, background culturale o territoriale, religione, orientamento affettivo e sessuale, ecc con lo scopo di mettere a disagio la vittima, causarle sofferenza o metterla in condizione di subalternità. La molestia produce il turbamento del benessere fisico, mentale o della tranquillità spirituale. 

Talvolta, pare che il significato della parola in oggetto sia ascrivibile alla libera interpretazione, su come e quanto ognuno empatizzi con questo fenomeno che, di fatto, è un comportamento discriminatorio punibile per legge. 

La domanda corretta, dunque, non è “cosa è la molestia per me ” o “quanto la ritengo tale” ma cosa si intende per molestia. Non è mai una battutaun gesto affettuoso, in altre parole. 

La legge italiana definisce molestia quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo (art. 26 dfel decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 108). 

Anche i datori di lavoro si stanno sempre più attivando per contrastare il fenomeno delle molestie con strumenti volti a salvaguardare il benessere delle loro risorse. A tal proposito si cita la legge 27 dicembre 2017, n.205, comma 3-bis, che si rivolge al datore di lavoro che ha l’obbligo di assicurare condizioni di lavoro tali da garantire l’integrità fisica e morale e la dignità dei lavoratori, anche concordando con le organizzazioni sindacali dei lavoratori le iniziative, di natura informativa e formativa, più opportune al fine di prevenire il fenomeno delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro. 

Molestia vs violenza: che cambia? 

É come dire che la molestia è la parte sotto la superficie di un iceberg la cui punta é il picco massimo della violenza, il femminicidio.  

La molestia in altre parole non è che l’anticamera della violenza.  

#metoo 

Il #metoo è un movimento femminista contro le molestie di genere e sessuali sulle donne. L’hashtag è stato diffuso sui social dall’ottobre del 2017 come fenomeno diffuso nei luoghi lavoro a seguito delle accuse di violenza contro il produttore cinematografico Harvey Weinstein.  

Cosa dice la legge 

1.Sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. 

2.Sono, altresì, considerate come discriminazioni le molestie sessuali, ovvero quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o  di  un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. 

 2-bis.Sono, altresì, considerati   come   discriminazione i trattamenti meno favorevoli subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di aver rifiutato i comportamenti di cui ai commi 1 e 2 o di esservisi sottomessi. 

3.Gli atti, i patti o i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro dei lavoratori o delle lavoratrici vittime dei comportamenti di cui ai (commi 1, 2 e 2-bis) sono nulli se adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti medesimi.  Sono considerati, altresì, discriminazioni quei trattamenti sfavorevoli da parte del   datore   di   lavoro   che costituiscono una reazione ad un reclamo o ad una azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne. 

3-bis.La lavoratrice o il lavoratore che agisce in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni per molestia o molestia sessuale poste in essere in violazione dei divieti di cui al presente capo non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro, determinati dalla denuncia stessa. Il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto denunciante è nullo. Sono altresì nulli il mutamento di mansioni ai sensi dell’articolo 2103 del Codice civile, nonché qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del denunciante. Le tutele di cui al presente comma non sono garantite nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del denunciante per i reati di calunnia o diffamazione ovvero l’infondatezza della denuncia.

3-ter.I datori di lavoro sono tenuti, ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile, ad assicurare condizioni di lavoro tali da garantire l’integrità fisica e morale e la dignità dei lavoratori, anche concordando con le organizzazioni sindacali dei lavoratori le iniziative, di natura informativa e formativa, più opportune al fine di prevenire il fenomeno delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro. Le imprese, i sindacati, i datori di lavoro e i lavoratori e le lavoratrici si impegnano ad assicurare il mantenimento nei luoghi di lavoro di un ambiente di lavoro in cui sia rispettata la  dignità di ognuno e siano favorite le  relazioni  interpersonali,  basate  su principi di eguaglianza e di reciproca correttezza).

/nò/

Avverbio olofrastico, esprime rifiuto, dissenso, contrasto, opposizione.

No significa no ed è sufficiente a esprimere una chiara posizione. Una parola tanto piccola quanto forte, carica di decisione e significato. 

Imparare a dire no

Dire no significa rispettare i propri limiti, priorità e bisogni. Non ci si deve sentire in colpa o scusarsi per rifiutare una richiesta o un invito che non interessano o che creano disagio.

Si può dire no in modo chiaro, spiegando le ragioni e senza giustificarsi eccessivamente.

C’è chi nasce decis* e sa dire questa parola. E poi c’è chi si lascia sopraffare dal voler/dover compiacere e mostrarsi accondiscendente.

Non compiacere è un’abilità importante che può migliorare l’autostima, la salute mentale e la qualità della vita. 

Incassare un no

Ricevere un no come risposta a una proposta o invito può far male. L’unica cosa  da fare in questi casi è rispettare la decisione dell’altra persona, senza indugi.

/pateɾniˈta/

La paternità è la condizione dell’essere padre e questo può riferirsi sia al legame biologico e affettivo tra un padre e i suoi figli, che ai diritti e doveri legali che ne derivano.
“Pater” in latino significa “padre” e si riferisce al genitore maschio, mentre “pascere” significa “nutrire” o “allevare”.
La correlazione tra “pater” e “pascere” è principalmente di natura etimologica e simbolica. Sebbene non siano direttamente correlati dal punto di vista linguistico, il legame tra i due termini emerge dal ruolo tradizionalmente attribuito al padre di nutrire e proteggere la famiglia.
Nel contesto dell’antica Roma, il “pater familias” era il capo della famiglia con autorità legale sui membri della famiglia e responsabilità per il loro sostentamento. Questo ruolo includeva l’aspetto del nutrimento, sia fisico che emotivo, che si riflette nel verbo “pascere”.
Il contesto sociale attuale ci pone dinnanzi a delle necessarie rivisitazioni dei più tradizionali significati di famiglia e ai ruoli fissi a essa associati.
In tal senso la paternità, come descritta poco prima, perde l’accezione implicita di capo-famiglia, la madre nei migliori dei casi lavora tanto quanto il padre e il concetto stesso di famiglia è cambiato.
Guadagna posto invece l’idea necessaria di genitorialità condivisa. Questa implica che entrambi i genitori partecipino attivamente all’educazione e al benessere dei figli, al carico di cura, condividendo responsabilità quotidiane e decisioni relative alla loro vita.
Un tassello fondamentale per l’abbattimento del divario di genere che relega la donna alla cura della famiglia.

Paternità e congedo parentale
Con paternità si intende anche il periodo di tempo in cui un padre si astiene dal lavoro in seguito alla nascita o all’adozione di un figlio o di una figlia. In Italia, secondo la Legge di Bilancio 2024, i giorni di congedo obbligatorio che spettano a un padre sono dieci.
Un tempo irrisorio che collima col concetto di genitorialità condivisa descritto sopra.
Se la gravidanza è di certo tutta una questione delle donne, cura e allevamento del figlio dovrebbe essere ripartiti a metà tra i genitori.
Questa nuova concezione di paternità abbatte i pregiudizi sull’accudimento dei figli come una attività da donne e abbatte il divario di genere nei luoghi di lavoro.
Prendere il congedo di paternità e il congedo parentale diviene dunque fondamentale per essere di supporto alle mamme. Esserci significa sostenerla nelle nuove attività che il bebé richiede, le consente di riprendere energia, di curare i baby blues (depressione post partum), dare tempo alla mamma per riacquisire la sua individualità, dedicarsi anche a se stessa e riprendere contatto col mondo lavorativo. L’alleanza dei padri é fondamentale al fine di evitare o contrastare l’isolamento e la solitudine che una donna può provare.
Inoltre, il congedo serve anche a creare un legame profondo col bebé.
Ne consegue che l’alleanza dei padri è fondamentale anche nel conclamato tema dei bassi tassi di natalità in Italia.

/ˈpɪŋk ˈwɒʃɪŋ/

Si tratta della crasi tra pink (rosa) e whitewashing (to whitewash,  tinteggiare). Letteralmente significa tinteggiare di rosa/ nascondere sotto il rosa, e siccome il rosa è un colore associato al genere femminile (?) significa metaforicamente finto impegno su temi riguardanti l’emancipazione e l’empowerment delle donne ad opera delle aziende, con l’unico scopo di accrescere la propria brand reputation e aumentare i ricavi.

Questo avviene quando si é in presenza di un gap tra la realtà e la facciata.

Perché fare pinkwashing?

Perché l’impegno sociale genera valore economico e di brand reputation.

Insomma, il rosa fa vendere di più, perché al consumator* l’impegno, la garanzia che quello che sta acquistando ha un valore più nobile ed alto del mero acquisto. In altre parole, chi acquista quel dato prodotto/servizio sposa e sente di contribuire alla causa. Strategie di marketing che non risparmiano alcuna causa sociale: non di rado capita che le imprese si fregino di fare ‘beneficenza’ usando questa stessa parola nelle vendite e con il solo scopo di aumentare il fatturato . In altre parole dietro al “i ricavati saranno devoluti in beneficenza” si cela un pagamento prestabilito (spesso misero) e indipendente dall’andamento delle vendite

Oltre 20 anni di Pinkwashing

Il termine venne usato per la prima volta all’inizio degli anni 2000 dalla Breast Cancer Action con la celebre campagna Think Before you Pink, il cui titolo rivela la provocazione. L’accusa di fare pinkwashing era rivolta ai brand che apponevano il noto fiocchetto rosa ai loro prodotti, dichiarando il devoluto in beneficenza ma senza avere prima verificato la sostenibilità dello stesso, il diritto delle donne che avevano contribuito alla realizzazione del prodotto, se i materiali usati fosse cancerogeni o meno ecc. Insomma, fu un vero smascheramento.

/sɪnˈdroːme delˈlɪm.po.sto.re/ 

La sindrome dell’impostore è una condizione psicologica che colpisce molte persone, specialmente quelle di successo. 

L’espressione fu coniata per la prima volta dalle psicologhe Pauline Clance e Suzanne Imes alla fine degli anni ’70.

La sindrome dell’impostore si manifesta quando una persona è convinta di non meritare il successo personale ottenuto. Si tratta della sottostima delle proprie conoscenze e capacità, attribuendo il merito a fattori esterni come la fortuna o il caso.

Le persone affette da questa sindrome hanno paura di essere scoperte come “imbroglioni”. Non riescono a interiorizzare i propri successi e continuano a credere di non esserne degnə.

Superare la sindrome dell’impostore è possibile e comporta lavorare sull’autostima, accettare i complimenti ricevuti, riconoscersi valore.

La sindrome dell’impost…rici!

Alzi la mano chi non ha pensato almeno una volta: “Prima o poi mi sgameranno!” 

La sindrome colpisce molte persone, ma sembra avere un impatto particolarmente significativo sulle donne. La causa è da ricercarsi negli stereotipi di cui le donne sono vittime e nelle aspettative sociali che le portano a mettere in discussione le proprie capacità e a vedere sé stesse in modo negativo. Il che si traduce in perfezionismo, ovvero sentirsi sotto pressione perenne per dover dimostrare di essere “brave” in tutto ciò si fa.

/sofˈfitto di krisˈtallo/

Con soffitto di cristallo (glass ceiling) si intende la barriera invisibile e impenetrabile che non permette alle donne di raggiungere i vertici nell’ambito lavorativo, indipendentemente dal merito.

L’espressione richiama indubbiamente un punto molto in alto, come se queste donne arrivassero a scalare fino a un certo  livello la leadership ma restando bloccate appena sotto al vertice. Non di rado, infatti, la cosiddetta C-Suite (i ruoli apicali che iniziano per “Chief…”)  é composta in prevalenza da uomini. 

Pare che ci siano altri problemi alle fondamenta di questo metaforico edificio, ben sotto il tetto. La scalata verso il vertice è minata già dai primi passi.  Se rompere il soffitto di cristallo per permettere alle donne di raggiungere posizioni apicali é così difficile lo si deve anche al fenomeno del gradino rotto (broken rung) ovvero la difficoltà a evolvere al ruolo di manager.

/so·rel·làn·za/

Con sorellanza si indica un sentimento di solidarietà tra le donne. Queste ultime sono accomunate da esperienze, condizioni e aspirazioni simili e non dal vincolo di sangue. Il termine sorellanza esprime dunque il valore dell’alleanza tra le donne. Una forza data dall’unione in opposizione a competizione e rivalità. 

Alla base della sorellanza c’è infatti il sostegno: donne che sostengono e supportano altre donne sia emotivamente che socialmente. Sorellanza è anche una rete femminile sicura e protettiva. Il che però non si pone contro o in antitesi rispetto al sesso maschile. Non è una gara maschi contro femmine, in altre parole. 

La nuova accezione al termine rispetto al suo più tradizionale significato è un invito a fare e sentirsi squadra con chi condivide il genere femminile (o femminista): stare unite. Un po’ come Raffaella Carrà e Mina in Milleluci nel ’74. 

Sisterhood: a feeling of shared interests and support among women (Cambridge dictionary)

Il termine venne usato per la prima volta dall’attivista e scrittrice Kate Millett negli anni 70′ con l’accezione di solidarietà tra donne indipendentemente da etnia, religione e orientamento sessuale. 

Il concetto di sorellanza venne poi ampliato a complicità dalla politica e antropologa Marcela Lagarde.

Vale la pena citare queste due donne perché entrambe – insieme a tanti altri nomi poco mainstream – contribuirono ad arricchire il movimento femminista. La Lagarde, per fare un esempio fu una tra le prime a teorizzare il concetto di femminicidio.

Lettura consigliata

Donne che corrono coi lupi, Clarissa Pinkola Estés.

/stɛm/

L’acronimo STEM sta per Science, Technology, Engineering & Mathematics ovvero l’insieme delle discipline scientifiche e tecnologiche e dei corsi di studi a esse associate. Settori fondamentali per lo sviluppo dell’innovazione, ma anche per la l’abbattimento del gender gap in quanto le donne sono ancora sottorappresentate in queste aree.

Nonostante l’intento di classificare i campi di applicazione, non esiste una lista universale e univoca. 

Il concetto di STEM è nato negli USA agli inizi del nuovo millennio riguardo alle materie necessarie allo sviluppo di una nuova forza lavoro legata all’innovazione.

“Le” STEM

Le materie STEM, le discipline STEM, le lauree STEM, le professioni STEM e soprattutto le ragazze e le donne STEM. L’acronimo è largamente usato come un implicito riferimento alle persone di sesso femminile che studiano, che hanno studiato o che lavorano in ambito STEM.

Lo stereotipo da combattere

Biascica nella subcultura di tante persone che femmine sta a materie umanistiche come maschi sta a materie scientifiche. Errore! Non esiste una correlazione biologica che associ per natura le materie al genere di nascita.

La sottorappresentazione del genere femminile nel mondo STEM è una realtà vittima degli stereotipi di genere e può essere contrastata in vari modi:

  • avvicinamento delle bambine alle materie tecnico-scientifiche;
  • open day a tutte le età su corsi di studio STEM;
  • hackaton aperti solo a bambine e ragazze;
  • recruiting mirato a donne STEM;
  • job rotation rivolti alle donne su ruoli tecnico-scientifici;
  • condivisione di role model femminili come modello a cui ispirarsi.
Da questo anno (2024) è stata istituita la Giornata Internazionale delle donne e delle ragazze nelle discipline Stem, con ricorrenza 11/02.

STEM o STEAM?

Due acronimi quasi identici, se non fosse per una A di mezzo. Con STEAM si aggiunge una disciplina in più alle già citate, e non è scientifica: Arts.

Con l’aggiunta di Arts si intende incorporare il pensiero creativo alla risoluzione di problemi pratici. 

Qualcuno potrebbe dire che si tratta di un’aggiunta superflua, che la creatività è già parte della natura e quindi in modo più che naturale è legata ai pilastri STEM.

Per quanto ovvia questa è una risposta meno immediata di quanto si possa immaginare. Sono in tanti infatti a credere che, come gli emisferi del cervello, creatività e scientificità siano due poli opposti. I nuovi mestieri del futuro, invece, non potranno che prevedere quanto l’una completi l’altra.

/ˈwɪs.əlˌbloʊɪŋ/

Il Whistleblowing è uno strumento aziendale di segnalazione anonimo, per segnalare qualcosa di sospetto come una molestia o una frode.

A segnalare può essere sia la vittima che il testimone.

Whistleblowing deriva da Whistler che significa letteralmente “soffiatore di fischietto”, azione legata ad arbitri e forze dell’ordine. Si ricorre a questo prestito dalla lingua inglese proprio per definire uno strumento che richiama all’ordine. 

/wəʊk ˈfɪʃə/

Si tratta di un neologismo che indica una persona che finge di avere idee paritarie e progressiste. 

Woke viene da awake un aggettivo che deriva dallo slang inglese-afroamericano che significa sveglio o consapevole, in questo caso nei confronti delle ingiustizie sociali; fisher deriva da fishing o phishing un suffisso ormai ampiamente usato per definire la falsificazione di qualcosa, come i dati. Le due parole combinate insieme definiscono una persona che solo apparentemente si schiera a favore dei diritti sociali. Insomma, un millantatore bello e buono da cui stare alla larga e a cui non dar credito.

Soprattutto, non bisogna farsi fregare da finti comportamenti inclusivi. E così come il pinkwashing, quella del wokefisher è una pratica che va a suo  vantaggio: aumento del suo prestigio, della sua credibilità e della sua popolarità agli occhi del suo network o delle persone che ha l’obiettivo di colpire. Questa persona sfrutterà valori sociali per raggiungere i suoi scopi, sia nella vita privata -come nel caso di un date – come nella vita professionale.

Come riconoscere e difendersi da un Wokefisher:

  • Non credere alla vetrina, ovvero a quello che intende comunicare
  • Osservare attentamente come si pone con le persone che non vuole colpire (nel caso si tratti di date osservate come tratta un cameriere, ad esempio; nel caso si tratti di un collega o peggio di un capo osservate come tratta un* stagista o la sua segreteria)
  • Allenare il linguaggio inclusivo e il linguaggio del corpo: che parole sceglie di utilizzare, in che modo si pone fisicamente quando parla
  • È arrogante

Il wokefishing in psicologia

Il potere del rispecchiamento emotivo è una modalità relazionale che ha degli effetti molto potenti e consiste nel fare da specchio alle emozioni altrui.

Red flag!

Ogni mese nuove parole da esplorare insieme! Stay tuned

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