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L’AI può essere inclusiva?

L’AI può essere inclusiva? Come affrontare gli stereotipi nelle immagini generate da AI L’avvento dell’Intelligenza Artificiale ha aperto nuovi orizzonti nella creazione di immagini, ma con ciò è emersa anche una questione delicata: la presenza di bias e stereotipi nei contenuti generati dagli algoritmi AI. Esploriamo insieme le ragioni dietro questo fenomeno e come possiamo mitigarlo per promuovere un utilizzo più etico e inclusivo di tali strumenti. AI generativa per immagini e video: come funziona?  I generatori di immagini AI sono software o strumenti basati su algoritmi avanzati di apprendimento automatico. L’AI apprende dai vasti set di dati ed è in grado di generare immagini completamente originali, comprese fotografie e disegni.   Come si sviluppano gli stereotipi nell’AI?  Gli stereotipi sono preconcetti o giudizi che si basano su generalizzazioni e semplificazioni e che possono influenzare il modo in cui le persone vedono il mondo. Se i dati di addestramento contengono bias o stereotipi, senza contromisure appropriate, l’AI li assimilerà inevitabilmente, riversandoli nelle immagini generate. Questo può derivare da dati di addestramento non rappresentativi o da pregiudizi impliciti presenti nelle scelte dei creatori del dataset:  Se il dataset utilizzato per addestrare l’AI è sbilanciato rispetto a razza, genere o altre caratteristiche, l’AI può replicare e amplificare gli stessi bias (es. 80% immagini di uomini e 20% immagini donna per training); Se gli sviluppatori non prestano attenzione sufficiente nella fase di progettazione del modello, possono involontariamente introdurre bias nella sua struttura, influenzando il modo in cui l’AI interpreta e genera immagini; Se il modello di AI non ha abbastanza esempi nel dataset di una determinata classe, avrà più probabilità di commettere errori o imprecisioni nel rappresentare esempi di quella classe.  Questo fenomeno è noto come bias algoritmico e può avere conseguenze negative, come la discriminazione di gruppi svantaggiati. Per questo motivo, è importante che gli sviluppatori di AI siano consapevoli di questo problema, al fine di sviluppare algoritmi equi e imparziali.  Quali tool AI abbiamo testato? Per il testing di immagini generative abbiamo deciso di utilizzare diversi prompt su 3 tool AI di utilizzo frequente: Bing Image Creator, Canva, ChatGPT 4.0. Bing Image Creator: Abbiamo chiesto a Image Creator di Bing di creare delle immagini con delle indicazioni molto generiche (una donna, un papà etc) senza fornire ulteriori dettagli come l’età, il ruolo, o dettagli fisici. Primo esempio Rappresentazione della figura genitoriale:  La mamma viene raffigurata in cucina nell’atto di insegnare a cucinare alla propria bambina (l’AI ha tra l’altro scelto il genere sessuale del figlio riproducendo in tutti e tre i casi una figlia). Il risultato prodotto da AI riporta senza dubbio alla sfera della cura. Il papà viene rappresentato in un collage di attività, che vanno dal divertimento, all’aiuto nello studio, allo sport. Il sesso del figlio che l’AI ha scelto è maschio. Nel primo caso assistiamo a un risultato univoco: tre immagini prodotte e tutte e tre identiche nella rappresentazione di focolare domestico. Nel secondo caso assistiamo a una variegata sfaccettatura che l’essere padre evidentemente comporta. Perché l’AI di Bing ha associato “una mamma” a una giovane donna che insegna a cucinare alla figlia femmina? Avrebbe potuto scegliere di rappresentare un miliardo di immagini e attività diverse ma ha scelto proprio quella. Cosa che non si può dire per il papà a cui sono state associate più immagini. Secondo esempio Nel secondo esempio abbiamo voluto verificare la rappresentazione uomo/donna, insieme, in due contesti circostanziali: per strada e al lavoro.   Bing sceglie di creare, nel primo input, una ragazza vestita casual, con un pantaloncino molto corto che cammina in mezzo alla strada di una grande metropoli, in mezzo alle macchine e in senso opposto di marcia. Nel secondo caso rappresenta un uomo con un cappotto e una valigetta 24 ore mentre cammina sulle strisce di una strada pedonale.  Alla donna viene associata la giovane età. Nessun altro elemento ci racconta qualcosa di lei, se non che ha delle belle gambe lunghe e che non teme di finire sotto a una macchina. Sull’uomo invece abbiamo un richiamo alla sfera professionale grazie a quel dettaglio aggiunto della valigetta e rispetto all’immagine della donna, una più oculata posizione sociale, si salva la vita e cammina nell’area preposta ai pedoni. L’unica cosa che hanno in comune i due è la corporatura: in entrambi i casi alti e magri. La donna è ancora una volta una giovane donna, ancora una volta magra. È seduta alla sua scrivania, presa dalla sua attività lavorativa, con delle cuffie mentre scrive sulla tastiera. Potrebbe anche dirigere un’azienda per quello che ne sappiamo o svolgere un ruolo operativo. L’uomo è rappresentato in piedi, appoggiato alla grande vetrata. Non ci sono pc, scrivanie eppure sembra chiaro che si tratti di un manager ai piani alti di una azienda. Non sta lavorando attivamente, non ci sono elementi che lo ricolleghi a nessuna attività lavorativa come la donna del primo caso, eppure questo uomo con le mani in tasca, il piede appoggiato alla gamba e lo sguardo fisso trasuda potere decisionale. Altro esempio rappresentativo di stereotipi è la seguente richiesta “una donna cammina per strada”: Bing genera 4 immagini simili di una donna, vestita di rosa, con dei fiori in mano, un vestito elegante e che indossa dei tacchi: classici stereotipi associati alle donne. Canva: Per i test svolti con la versione gratuita di Canva, abbiamo fornito prompt sia in italiano che in inglese cercando di non evidenziare il genere nel prompt stesso. Il prompt “an engineer at work” ci restituisce un’immagine poco rappresentativa di questa professione, non solo in termini di etnia, età e genere, ma anche per i diversi indirizzi (elettronica, gestionale, biomedica…),in contesti lavorativi obsoleti, un richiamo a lavori del passato più che all’oggi. Anche nel caso di professioni in cui il gender gap è nella realtà più bilanciato rispetto ad ingegneria, il prompt “medico al lavoro” viene rappresentato come un uomo caucasico e di mezza età Eseguendo il test con un prompt in inglese otteniamo risultati analoghi Abbiamo chiesto infine una rappresentazione di un capo che incontra l’assistente

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Di colore, color carne e altri bias – intervista a Giuditta Rossi

Di colore, color carne e altri bias Ci sono espressioni chiare, altre equivocabili o, se non altro, che danno libera interpretazione. Una di queste è di colore, la traduzione italiana per definire una persona la cui pelle non è bianca. Nell’analisi delle evidenze del report “Women in the workplace” per l’articolo su falsi miti e stereotipi (nota 1) siamo incappate in una riflessione sull’espressione women of colour che era citata più volte. Nelle note si chiariva l’espressione in lingua inglese (Women of colour include Black, Latina, Asian, Native American/American Indian/Indigenous or Alaskan Native, Native Hawaiian, Pacific Islander, Midlle Eastern, or mixed-race women), ma si trattava di un appunto che in lingua italiana fa emergere una complessità non risolta. Mentre in inglese con of colour si fa riferimento alle varie etnie (afro, indiana, etc), in italiano di colore si riferisce a un colore ben preciso. Come tradurre quindi, visto che un termine equo, univoco, condiviso e accettato non esiste? Abbiamo chiesto a Giuditta Rossi – brand strategist e co-founder, insieme a Cristina Maurelli, di Bold Stories https://boldstories.it/  e della campagna di advocacy virale Color Carne https://colorcarne.it/ – di riflettere con noi su queste tematiche. Come definiresti il termine “donna di colore” e perché lo ritieni appropriato o inappropriato? La questione è complessa, il termine presenta delle criticità ed è necessario fare una piccola panoramica sulla terminologia. “Di colore” nasce dall’inglese “person of color” per indicare in modo generico una persona non identificabile come “bianca”. Quando questa espressione è stata adottata nella lingua italiana, il significato si è ristretto per indicare solo le persone nere. La terminologia è carente dal punto di vista della rappresentazione, anche nella versione inglese, perché “di colore” nasce dagli stessi bias evidenziati con Bold Stories nella campagna Color Carne, in cui era evidente che, inconsciamente, si stesse definendo uno standard. Perché in fondo, “di colore” rispetto a chi? Quello dell’intersezione tra colore della pelle, etnia, nazionalità e cultura è un ambito a cui servono parole nuove. Non è facile individuarle perché è un tema non risolto, anche a livello internazionale. Qual è la tua opinione sull’uso della parola nera o nero per indicare le persone di origine africana o afrodiscendenti? Appartengo a quella parte di professionalità e studio che ritiene che “nera” sia al momento preferibile all’espressione “di colore”, proprio per i motivi sopra citati. Anche questa parola presenta alcune criticità – come bianca del resto – perché non ci sono persone veramente bianche o nere. L’umanità è un mix di colori, ha mille sfumature. È una semplificazione quindi, ma finché non avremo di meglio è quella che ho scelto per definire me stessa. Ma cosa succede a chi non è una persona considerata bianca o nera? Che parole utilizziamo? Al momento si tende a usare la nazionalità, la provenienza geografica, il luogo in cui sono nati i propri antenati, ma non è risolutivo, racconta solo una parte della realtà. In questo senso un bias che si riscontra spesso in Italia è pensare che una persona nera sia necessariamente di un’altra nazionalità, come se in Italia ci fossero solo persone bianche. Cosa pensi dell’uso della n word (https://www.treccani.it/vocabolario/neo-n-word_%28Neologismi%29/ ), sia nella sua forma dispregiativa che in quella riappropriata, da parte di alcune persone nere attiviste o nel campo dell’arte? Penso che non ci sia molto da dire: la n word è una parola fortemente discriminatoria, da non utilizzare in nessun contesto. Detto questo, se alcune persone discriminate scelgono di rivendicarla per loro stesse per cambiarne la narrazione, come accaduto anche con altre parole tipicamente identificate come slur – insulti o diffamanti – penso sia un loro diritto. Certamente questo non vale per chi non è oggetto di quella discriminazione. Quali sono le principali sfide e opportunità che le donne nere devono affrontare nel contesto italiano e globale? Tra i temi principali che colpiscono le persone nere, così come in generale tutte le persone discriminate, ci sono quelli della rappresentazione e dell’accesso. Sono dinamiche che hanno a che vedere con il potere, chi lo detiene e come si sceglie di usarlo. E poi c’è nello specifico la questione delle donne, in quanto oggetto di una discriminazione di genere. Quello che vorrei vedere è una maggiore intersezionalità. È molto diverso essere una donna cisgender rispetto a essere una donna cisgender nera, così come lo è essere una donna cisgender nera con disabilità o una donna transgender nera. Le intersezioni sono tantissime e non dovremmo dimenticarcene. Per questo ritengo che le attività di Diversità, Equità e Inclusione (DE&I), che sempre più si svolgono all’interno delle organizzazioni, giochino un ruolo importante nel lavorare attivamente per promuovere il cambiamento. Quali sono le fonti di ispirazione e i modelli di riferimento che le donne nere possono trovare nella letteratura, nell’arte, nella musica e nel cinema? In Bold Stories diciamo che “Chi non è rappresentat* non esiste”. Chi non rientra nelle narrazioni di cui facciamo esperienza ogni giorno tende ad essere meno visibile nella mente delle persone. Mettere nel mondo storie autentiche e coraggiose è un modo per far sentire le persone viste e riconosciute per chi sono davvero. In questo senso, il contributo delle donne nere è enorme in tutti i settori: autrici, registe, attrici, produttrici, performer, artiste… Ogni giorno sfidano lo standard e rendono gli spazi sempre più ampi, non solo per loro stesse e le proprie comunità di riferimento, ma per tutte quelle persone che nelle storie non si vedono mai. Queste donne sono troppe per essere menzionate, quello che posso fare è citare alcune tra le mie narrazioni preferite che, in momenti e per motivi diversi, mi hanno fatta sentire vista: Il libro: Salvare le ossa di Jesmyn Ward. La serie tv: Harlem di Tracy Oliver. La canzone: Brown skin girl di Beyoncé. Arte: le illustrazioni di Laci Jordan. Come si può promuovere una maggiore consapevolezza e sensibilizzazione sulle questioni di genere e razza tra le donne e nella società in generale? C’è una cosa importante che abbiamo voluto comunicare con la campagna Color Carne e più di recente

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Dizionario Femminista 

Generata con Bing AI con tecnologia DALL·E 3 Le parole nuove entrano nelle nostre vite di continuo. Alcune non sopravvivono a lungo, sono solo la moda del momento. Altre permangono. Quello che conta è la loro funzione: comunicare. Anche far riflettere.  Il linguaggio definisce e nel farlo esclude qualcosa o qualcuno. Le parole definiscono il modo di comunicare, di far sentire gli altri e dicono molto su chi parla a chi ascolta.  a cura di Federica De Felici   8 marzo /ˈɔt.to ˈmar.t͡so/ L’8 marzo si celebra la Giornata internazionale dei diritti della donna, una data che ricorda le lotte e le conquiste delle donne per i loro diritti politici, sociali ed economici e la denuncia delle violenze e delle discriminazioni da esse subite. Istituita dalla Nazioni Unite nel 1975, la ricorrenza ha lo scopo di ribadire l’importanza del raggiungimento dei diritti e dell’emancipazione delle donne. Oggi viene celebrata in oltre 100 paesi. Non è la festa della donna Nella cultura popolare l’8 marzo è la festa della donna. Per anni si è assistito alla dinamica del permesso consentito, ovvero un giorno bonus che autorizzava a comportarsi talvolta come un certo tipo di uomo. Tra mimose e serate a tema c’è (e c’è ancora!) la tossicità che alimenta stereotipi e pregiudizi sulle differenze di genere, il ruolo della donna nella società, e chi più ne ha più ne metta. Spoiler: non c’è niente da festeggiare! Le origini e falsi miti È ricorrente il falso mito che la Giornata dei diritti della donna nasca da un incendio. La storia di questa giornata è legata a diversi eventi storici significativi, tutti volti al riconoscimento dei diritti delle donne eche hanno avuto luogo all’inizio del XX secolo, tra cui: Il VII Congresso della II Internazionale socialista nel 1907, dove si discusse della questione femminile e del voto alle donne. La conferenza “Woman’s Day” di Chicago nel 1908, organizzata da Corinne Brown che puntava a sfruttamento lavorativo e diritto di voto. Lo sciopero delle operaie delle industrie tessili a New York nel 1908 per denunciare le condizioni di lavoro. La conferenza Internazionale delle donne tenuta a Copenaghen nel 1910 per il riconoscimento del diritto di voto. L’incendio della fabbrica Triangle che causò la morte di 123 donne e 23 uomini. L’incidente diede il via a nuove leggi sulla sicurezza sul lavoro e aumentò le adesioni a uno dei più importanti sindacati degli States, l’International Ladies’ Garmen Workers Union.  Questi sono solo alcuni degli esempi di eventi storici realmente accaduti e che hanno dato le origini a quella che oggi è laa Giornata Interazionale dei diritti della donna, ben lontana quindi da festeggiamenti e molto vicina alle lotte e alle conquiste che ancora oggi le donne portano avanti. Le principali lotte di oggi Le principali lotte delle donne oggi si concentrano su vari aspetti sociali, economici e politici. Tra queste, le più rilevanti includono: uguaglianza sul lavoro diritti riproduttivi work-life balance Ageismo di genere /aˈdʒɛizmo di ˈdʒɛnere/ Ageismo è un adattamento dall’inglese ageism, che a sua volta deriva da age (età). Con questo neologismo ci si riferisce a una forma di pregiudizio legata all’età, all’invecchiamento. Ageismo di genere esprime l’intersezionalità tra due discriminazioni: la svalorizzazione che consegue all’avanzare degli anni e l’essere donna. Una combinazione di stereotipi e pregiudizi che limitano le opportunità di chi appartiene a entrambe le categorie. Cosa cambia nell’invecchiamento tra uomo e donna? Nulla! È solo questione di percezione e bias. Avete mai sentito l’espressione “Le donne invecchiano peggio degli uomini?” Molti studi biologici asseriscono il contrario, eppure è credenza comune che se la donna invecchia, l’uomo diventa più affascinante. Dunque, a tutti i pregiudizi a cui una donna deve far fronte, nel corso del tempo, si aggiungono anche quelli legati all’invecchiamento. Come tutte le discriminazioni, anche l’ageismo di genere ha delle conseguenze negative in chi le subisce (redditi più bassi, alto rischio povertà, educazione e istruzione, isolamento sociale, problemi legati alla salute, ecc). Contrastare lo stereotipo legato all’ageismo di genere Superare i pregiudizi dell’ageismo di genere è possibile. È sempre necessario lavorare sulla cultura e sull’educazione delle persone, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti. Anche nelle aziende. Per esempio, all’ageismo spesso è dedicato un vero filone delle pratiche di Diversity, Equity & Inclusion con lo scopo di aiutare risorse senior e junior a coesistere nello stesso ambiente, per lavorare fianco a fianco superando rispettivi pregiudizi. Senza questi piani attivi e senza una solidarietà intergenerazionale, il rischio nei turn over è di perdere prezioso know-how da un lato e giovani talenti dall’altro Ally /’ælai/ Ally è il prestito dalla lingua inglese della traduzione in italiano di alleatə. Nell’uso più comune definisce una persona che si schiera a favore di un gruppo o di una causa, anche se non fa parte direttamente di quel gruppo: donne, comunità LGBTQ+, ambito disability o racial. Questo termine è spesso utilizzato in contesti di attivismo e lotta per i diritti civili. Non sono una donna, posso essere alleatə delle donne?  Sì! Le persone alleate giocano un ruolo cruciale nel colmare il divario di genere. Sono persone che, pur non appartenendo direttamente al gruppo, si impegnano attivamente a favore dell’uguaglianza di genere e e per la parità di genere. Ad esempio, nel mondo del lavoro le persone alleate possono essere anche responsabili di struttura, manager che promuovono la parità salariale o scelgono le donne per le posizioni apicali. Bias /ˈbaɪəs/ Bias significa pregiudizio. Prendiamo il termine in prestito dall’inglese e lo usiamo in italiano sia per il singolare che il plurale: “a strong feeling in favour of or against one group of people, or one side in an argument, often not based on fair judgement” (Oxford Leaner’s Dicfionary). Si tratta di preconcetti, ovvero di idee concepite sulla base di opinioni superficiali, il che può portare ad assumere atteggiamenti discriminatori verso qualcosa o qualcuno. In questo senso, i bias possono essere pericolosi perché hanno una enorme influenza sulle nostre credenze e dunque sui comportamenti, generando un impatto negativo nei posti dove ci troviamo (la casa,

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#EqualPayDay: 7.922 euro in meno all’anno per le donne

Il 15 novembre 2023 si celebra la Giornata europea della parità retributiva, una giornata simbolica che rappresenta il giorno dell’anno in cui le donne smettono di guadagnare, per cui i successivi giorni lavorativi fino alla fine dell’anno sono non retribuiti rispetto ai colleghi uomini. La data dell’ Equal Pay Day varia annualmente in base all’attuale cifra della disparità salariale di genere nell’UE. Nei 27 paesi dell’UE, infatti la retribuzione lorda oraria media dei lavoratori dipendenti di sesso maschile nel 2021 risultava essere superiore del 12,7% rispetto a quella delle lavoratrici. Questa discrepanza salariale si traduce in una differenza di circa un mese e mezzo di stipendio all’anno ed un successivo divario pensionistico pari al circa il 30% nell’UE (dati del 2018). La Commissione europea dedica ogni anno una giornata a sensibilizzare sull’evidente divario salariale di genere e per continuare gli sforzi al fine di garantire una parità di retribuzione per uomini e donne. La situazione in Italia sul gender pay gap Emerge dagli ultimi dati forniti dall’Osservatorio sui lavori dipendenti del settore privato dell’INPS che nel 2022 i lavoratori dipendenti del settore privato, escludendo operai agricoli e domestici, che hanno svolto almeno una giornata retribuita nell’anno, sono stati 16.978.425, con una prevalenza di sesso maschile del 57,2% del totale. Inoltre, è presente una forte disparità salariale di genere anche nella retribuzione media annua, attestata a 22.839 euro, che vede una retribuzione costantemente superiore per i lavoratori di sesso maschile (26.227 euro), rispetto a quella delle lavoratrici femminili (18.305 euro).  Il gender pay gap in Italia si attesta quindi a 7.922 euro in meno per le donne. Secondo i dati INPS, in Italia il divario retributivo di genere è pari al 13,1%, in leggera diminuzione rispetto al 2022 (13,2%). Ciò significa che per ogni euro guadagnato da un uomo, una donna ne guadagna 0,87. Le cause del divario retributivo sono molteplici e includono fattori strutturali, come la segregazione occupazionale, i pregiudizi di genere e la discriminazione, la maternità o ruoli di cura in ambito familiare, e fattori individuali, come la scelta di percorsi di studio e carriera meno remunerativi. Alcune proposte per colmare il divario retributivo Per colmare il divario retributivo è necessario intervenire su 2 fronti, uno strutturale e uno individuale. A livello strutturale, è necessario promuovere la parità di genere in tutti i settori della società, contrastare i pregiudizi e la discriminazione e favorire la conciliazione tra lavoro e famiglia. A livello individuale, è importante che le donne siano consapevoli dei propri diritti e si impegnino a coltivare ambizioni senza ostacoli o freni rispetto alla possibilità di occupare qualsiasi ruolo, perseguendo percorsi professionali anche storicamente ad appannaggio maschile. In occasione del #EqualPayDay è importante riflettere sulle azioni utili a superare il gender pay gap come: È importante che tutti, istituzioni, imprese e cittadini, si impegnino per colmare il divario retributivo e garantire a tutte le donne la possibilità di avere pari opportunità di lavoro e di guadagno. L’implementazione di queste proposte può contribuire in modo significativo a ridurre il gender pay gap e promuovere una maggiore equità nel mondo del lavoro. La consapevolezza dell’attuale divario è sicuramente un primo passo importante, affinché si prenda atto della disparità per poi agire verso il riequilibrio. A cura di Jessica Sabellico e Stefania Lofiego

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BlackRock dixit: l’equità di genere aumenta la redditività

L’equità di genere non è solo un diritto umano fondamentale, ma funge anche da catalizzatore per la crescita economica e la prosperità. Quando le imprese abbracciano l’inclusività e promuovono l’uguaglianza di genere, sbloccano una serie di vantaggi che influiscono positivamente sul loro bilancio. Lo studio di BlackRock “Lifting financial performance by investing in women”  dimostra infatti che le aziende con una maggiore equità di genere hanno una migliore redditività delle risorse utilizzate (misurata come RoA: tasso di rendimento sul totale dell’attivo di un’impresa) rispetto ai peers che registrano meno equità tra i generi, con una crescita annuale media del 2% tra il 2013 e il 2022. L’equità produce benefici concreti.  Più è bilanciata la presenza tra uomini e donne in azienda e più sono positivi i risultati. Né la sottorappresentazione di uomini né la sottorappresentazione di donne porta valore, come si evince nella Chart 4 ripresa dal Report. Un migliore bilanciamento riduce il tasso di turnover dei dipendenti, così come un maggior numero di donne nelle posizioni dirigenziali può essere associato ad investimenti con migliori rendimenti azionari. Lo studio dimostra anche che le aziende statunitensi in cui le donne prendevano periodi di maternity leave più lunghi superavano i competitor in cui i permessi erano più brevi. Di contro la presenza di gap diviene un indice predittivo di un minore RoA futuro, in particolare se riguarda il middle management rispetto all’intera forza lavoro.  Eppure queste evidenze ancora non si traducono in una rottura del soffitto di cristallo visto che tra le società dell’indice MSCI World le donne occupano solo il 18% dei posti dirigenziali nel 2021 ed il 6% dei ruoli CEO nel 2022. “L’apporto di capitale umano è molto importante per le performance di investimento”, ha dichiarato Sandra Lawson, Managing director di BlackRock che ha condotto il lavoro. “Si tratta di una correlazione piuttosto potente”.  L’interpretazione corretta dello studio porta a prendere atto che i diversi punti di vista di persone quanto più dissimili tra loro (non solo per genere ma anche per altri fattori sociali come il background culturale o l’età per esempio) porti valore. Un valore misurabile in termini economici. A cura di Federica De Felici e Stefania Lofiego

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4 FALSI MITI: STEREOTIPI SU DONNA E CARRIERA

È stata pubblicata l’edizione 2023 del report “Women in the Workplace”, ideato da LeanIn.Org e McKinsey & Company. È lo studio più ampio sulla situazione femminile nelle corporate in America, un campione che in 9 anni ha coinvolto 900 organizzazioni e oltre 23 milioni di persone. Quali sono le principali evidenze? Esistono riflessioni applicabili anche alla realtà italiana? Lo abbiamo chiesto a Kiasi Sandrine Mputu, Millennial italiana e expat, che attualmente vive e lavora in Inghilterra come Assistant Manager, Radio Host ed Entrepreneur. La presenza femminile nei ruoli dell’organizzazione: alcuni dati Ancora poche donne!  Pur in presenza di un continuo miglioramento anno dopo anno, le donne sono ancora poche in tutti i ruoli della gerarchia lavorativa e se guardiamo alle donne appartenenti ad una minoranza etnica sono ulteriormente sottorappresentate (nel report è specificato come “women of colour”, definizione che include “Black, Latina, Asian, Native American / American Indian / Indigenous o Alaskan Native, Native Hawaiian, Pacific Islander, Middle Eastern, o di razza mista”). Dalla prima rilevazione del 2015 i numeri sono cresciuti di qualche punto percentuale ovunque, dalle prime assunzioni alle posizioni di middle management, fino alla C-suite. Lo stacco è avvenuto maggiormente proprio nelle posizioni apicali con 11 punti percentuali, dal 17% al 28%, ma nonostante questa spinta siamo ancora lontani dall’equilibrio di genere. Sulla C-suite oggi troviamo 1 donna ogni 4 uomini e ancora meno 1 “donna non caucasica” ogni 16 uomini.  Una quota femminile limitata si traduce in poche “Inspiring Women”, che possano influenzare positivamente le altre donne, coloro che sono desiderose di una crescita lavorativa, e le giovani generazioni. Vi sono pochi modelli di riferimento, mentre è fondamentale avere esempi di persone in cui identificarsi, percepire la possibilità del loro percorso di carriera per poterlo ripercorrere, riportando una citazione nel report di una Direttrice (e donna nera) “People need to see leaders who look like themselves to understand that it’s possible for them”. “L’assenza di role model” conferma Sandrine “é un dato di fatto. La situazione attuale sembrerebbe dirigersi verso un lieve miglioramento, tuttavia vi è ancora una lunga strada da percorrere per arrivare ad una rappresentazione reale, a tutti gli effetti ein ogni settore. Oggi il tema della rappresentazione in Italia risulta ancora carente in tanti contesti, dalla comunicazione, alla politica ma anche nei media, nel settore educativo e via dicendo,  ambiti in cui le donne italiane nere esistono più che in passato ma in cui risultano ancora poco in vista e riconosciute proprio in mancanza di pratiche di inclusione e dati che aiutino a colmare i gap presenti sul territorio: i numeri sono importantissimi, perché fotografano la società in cui si vive, i talenti a disposizione,  le opportunità da cogliere e quelle mancate.” Quattro falsi miti su donna e carriera Sfatiamo quattro falsi miti sull’approccio che le donne hanno verso il lavoro e la carriera. Mito #1: Le donne sono meno ambiziose. ⁠ Evidenza: La ricerca ha riscontrato che le donne sono più ambiziose del periodo pre-pandemia e la flessibilità lavorativa alimenta questa propensione: 8 donne su 10 ambiscono ad una crescita lavorativa rispetto a 7 su 10 del 2019 con maggiore intensità in ragazzi e ragazze under 30, dove 9 su 10 aspirano ad una promozione.  Il lavoro da remoto e ibrido pone condizioni più favorevoli per le donne per poter conciliare i diversi ruoli, consentendo oggi di aspirare ad una crescita professionale, laddove in passato il lavoro esclusivamente in sede costringeva spesso a scelte drastiche di riduzione orario di lavoro o di spostamento su mansioni a minore responsabilità. L’aspirazione di crescita è molto forte anche nelle “women of colour” che per il 96% vivono la carriera come elemento molto importante della loro vita, ambendo per l’88% ad una crescita. Su questi due aspetti, Sandrine ci ha condiviso come il lavoro sia associabile all’indipendenza, all’emancipazione sociale e alla possibilità di libertà e scelta che esprimono congiuntamente la rilevanza dei dati. Mito #2. Il più grande ostacolo all’avanzamento delle donne è il “soffitto di cristallo”. Evidenza: Mentre generalmente si pensa che l’ostacolo maggiore sia nel raggiungimento di posizioni di vertice e leadership, in realtà è maggiormente frequente incappare nel “gradino rotto”, ossia una prima barriera che le donne devono affrontano nel diventare manager. La criticità sta infatti sul passaggio da entry level a manager, con un gap del 20% tra uomini e donne. Ogni 100 uomini promossi, le donne sono 87, e si scende a 54 se si tratta di “Black women” (con notevoli passi indietro rispetto agli 82 del 2020 o ai 96 del 2021).  L’interpretazione di Sandrine su questa retrocessione è legata ad una accentuata attenzione sui fenomeni razziali nella fase successiva alla morte di George Floyd da cui è conseguita un’attenzione mediatica e social mediatica intorno ai diversi movimenti (in particolare Black Lives Matter), conversazioni ed iniziative relative alle tematiche legate alla razza, uguaglianza, diversitá ed inclusione, i quali hanno quindi favorito nell’immediato maggiori opportunità lavorative alle “women of colour”, ma più come un effetto temporaneo e circoscritto che come una modifica strutturale al sistema:il fenomeno del “tokenismo”, cioè “la pratica di fare qualcosa (come assumere una persona che appartiene a un gruppo minoritario) solo per evitare critiche e dare l’impressione che le persone siano trattate in modo equo” dalla definizione di Merriam Webster. Il report, inoltre, evidenzia come il “Performance Bias” incida negativamente sia nell’assunzione che nello sviluppo di carriera: mentre le donne vengono assunte o promosse in base ai precedenti traguardi, gli uomini vengono valutati sulle loro potenzialità future. Un punto di vista profondamente divergente su cui riflettere ed intervenire per porre entrambi sullo stesso piano, facendo in modo che il bias non penalizzi la crescita dell’intero cluster femminile. Mito #3. Le micro-aggressioni hanno un impatto minimo. Evidenza: Le micro-aggressioni hanno effetti significativi e duraturi sulle donne. Il report analizza le diverse casistiche di micro-aggressioni (definizione entro cui potemmo accorpare comportamenti dettati da pregiudizi) mettendone in luce le conseguenze, come stati di burn out o desideri di cambiare azienda, effetti molto rilevanti, che si contrappongono all’appellativo “micro” che farebbe

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Eterne Signorine? Recitare gli stereotipi di genere

C’è un tema che mi sta a cuore da anni, la parità di genere. Venerdì 22 settembre, presso l’azienda CRM Partners, si è tenuto il mio primo speech, a titolo personale, sull’Empowerment femminile. Sono stata invitata a condividere la mia testimonianza insieme a Fabiana Musicco, una donna di grande spessore professionale ed umano, che ha avuto il coraggio, circa venti anni fa, di lasciare, da dirigente, una azienda per affrontare una sfida culturale e sociale immensa: lanciare una onlus. Insieme abbiamo preparato l’incontro, ci siamo confrontate, ci siamo guardate dentro, abbiamo ricostruito i nostri percorsi e poi ci siamo riconosciute nelle parole di Michela Murgia, raccolte dentro un suo prezioso libro: “Stai zitta”.  Ci siamo ispirate a lei. Quel venerdì mattina, la stanza era piena di giovani donne e uomini. Ho intravisto in alcuni sguardi la curiosità, in altri, un amletico dubbio, in altri ancora, una aprioristica sfida. L’agenda della giornata prevedeva i nostri due interventi, una fase di confronto e a seguire la creazione di gruppi per la simulazione di situazioni di discriminazione di genere. Dopo le presentazioni iniziali della Responsabile HR Costanza Fratta e del CEO dell’azienda Armando De Lucia, io e Fabiana iniziamo il nostro speech. Fabiana si presenta e si racconta con emozione e passione. Quando tocca a me, mi autodefinisco ingegnera e femminista ed inizio a parlare di numeri. Ma non per annoiare, solo per condividere il quadro della condizione femminile nel mondo ed in Italia. Tra i vari numeri, riporto che secondo l’ONU, per raggiugere la parità salariale nel mondo, ci vorranno 257 anni e che in Italia le donne CEO di società quotate sono l’8%. Quindi parliamo del tetto di cristallo (la difficoltà delle donne di raggiungere posizioni apicali) che è ancora un fenomeno strutturale, ci diciamo che probabilmente c’è ancora bisogno delle quote rose per sfondarlo, soprattutto perché il rischio è che le donne rinuncino alla sfida già in partenza. Dopo la dimensione dei numeri, esploriamo con Fabiana l’insidioso mondo delle parole.Nanni Moretti in Palombella rossadice che “Le parole sono importanti” ed anche noi ci domandiamo come mai ancora oggi su tante professioni si predilige il maschile, come se fosse considerato più prestigioso. Noi la pensiamo come Murgia, dichiariamo cioè che se proprio noi donne preferiamo non usare la forma corretta, come avvocata, ingegnera, architetta, siamo noi stesse a non darci prestigio. È così che continuiamo a perpetrare la discriminazione con l’imposizione del maschile universale. Murgia sostiene che è come se stessimo occupando abusivamente il posto di un uomo. Siamo abituate ad ascoltare appellativi come AstroSamantha o Astromamma per donne che hanno un ruolo professionale di rilievo, ma non capita mai di sentir chiamare un astronauta uomo con l’appellativo di Astropapà. Tutto ciò ci sembra normale. Ma non lo è. Dopo il complesso mondo delle parole, io e Fabiana affrontiamo il tragico mondo offeso del corpo femminile. Parliamo della cultura patriarcale e dei danni macroscopici che ha inferto nelle menti delle persone, donne e uomini indistintamente. Raccontiamo che siamo stati sottoposti per anni a un bombardamento mediatico di immagini svilenti in cui il corpo femminile veniva oggettivizzato e ridotto quasi sempre ad una sola parte erotica. Abbiamo ipotizzato che una reificazione della donna così diffusa, possa purtroppo, anche solo inconsciamente, produrre situazioni imbarazzanti per le donne anche nel mondo del lavoro. Il rischio, abbiamo detto, è che diventi legittimo non riconoscere l’autorevolezza alle donne, perpetrando la brutta abitudine di organizzare solo i manel, ossia gli all male panel, congressi in cui vengono invitati a parlare solo gli uomini, poiché ritenuti più autorevoli. Si è così abituati a dare visibilità agli uomini che si fa fatica a riconoscere il valore delle donne, il loro peso specifico, e sicuramente averle ignorate, ridicolizzate e ridimensionate al ruolo di principianti, non ha aiutato la causa. Fabiana ha raccontato un episodio in cui nonostante lei fosse una dirigente, i capi erano soliti appellarla con il nomignolo di “ragazza”. Queste situazioni purtroppo tendono a sminuire la donna, a rimpicciolirla. Abbiamo riflettuto sul fatto che per le donne è quasi impossibile farsi chiamare con il cognome e con il titolo professionale: noi siamo le eterne “signorine”, infatti al bar, di solito solo il nostro collega maschio viene chiamato con l’appellativo di “Ingegnere”.  Noi restiamo solo delle “signorine” anche se siamo Ingegnere. Secondo noi, abbiamo continuato, raggiungere il potere in poche non serve a nulla, serve farlo insieme, ci vuole una massa critica minima e delle sorelle capaci di dedicarsi ad altre sorelle, costruendo percorsi di emancipazione in grado di far superare a tutte gli ostacoli sessisti. Infatti, secondo noi la leggenda che le donne siano rivali è solo una strategia del patriarcato, che ci vuole divise. Noi non siamo rivali, ma crederlo e dircelo rafforza il pensiero unico maschile e ci indebolisce dividendoci, come sostiene Murgia. Insieme facciamo paura e se poi in quell’insieme hanno il coraggio di entrare anche gli uomini, faremo paura ancora di più. Secondo noi, infatti, l’alleanza con gli uomini è fondamentale, perché la difesa di una donna dagli attacchi sessisti può farla una donna, ma anche un uomo. La cultura di parità che vorremmo diffondere, secondo noi, deve partire dalle bambine, abbiamo detto, perché l’immagine della donna che aspetta il principe azzurro vorremmo scardinarla una volta per tutte, perché, secondo noi, alle bambine va insegnato il valore dell’indipendenza, l’importanza del proprio corpo e la potenza delle parole. Le bambine non devono vivere più di eterna approvazione maschile o diventare donne in un universo di penelopismo esasperato, ma devono fare un percorso di consapevolezza, un viaggio verso un futuro in cui saranno davvero libere di scegliere. Alle fine dello speech alcuni uomini si sono riconosciuti nei nostri pensieri, affermando anche con coraggio che quella cultura patriarcale danneggia anche loro, poiché li imprigiona in un modello rigido e claustrofobico. Altri uomini, invece, anche se erano d’accordo su tutto, hanno sollevato dei dubbi su alcune parole (ingegnera, architetta sono parole che non esistono e sono cacofoniche!), sulle quote rosa (dobbiamo avere persone competenti, non dobbiamo selezionare

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Intervista NoiD Telecom al Social Women Talk! 2023: “Comunicazione Phygital per fare cultura sul gender gap fuori e dentro il web”

Noemi Giammusso: Ci racconti per chi non vi conoscesse cos’è e come nasce NoiD Telecom? Quali sono gli strumenti che avete messo in campo per promuovere i vostri obiettivi e fare rete?  Roberta Perfetti: NoiD Telecom è una Associazione nata oltre 10 anni fa dall’iniziativa di alcune donne manager del Gruppo TIM, all’epoca “Telecom Italia” di cui abbiamo conservato il nome, per promuovere la parità di genere e favorire un cambiamento culturale sia all’interno del Gruppo, sia nel contesto in cui opera.  I nostri obiettivi principali sono:   Le azioni/attività che mettiamo in campo per raggiungerli sono:   Lo scorso anno siamo intervenute in questo stesso evento per raccontare il lavoro di allargamento della community sui social che stavamo facendo, un lavoro che continuiamo a portare avanti e che ci particolare soddisfazione: oggi abbiamo circa 3mila followers tra tutti gli account social attivi. E direi che per una piccola associazione di settore è una gran bel numero. Un risultato che arriva grazie anche al riconosciuto apprezzamento per il nostro lavoro da buona parte del management di TIM.  Siamo cresciute quindi, sia sui social sia in generale, oggi siamo 350-400 tra socie e simpatizzanti. E come succede spesso quando si cresce, ci si domanda cosa si può fare di più e meglio. Tra le novità c’è l’apertura dell’Associazione agli uomini e a tutte le persone esterne al Gruppo TIM, decisione presa convinte del valore dell’inclusione e dell’equilibrio.    Il Networking è l’attività meno digital ma molto importante e su cui stiamo puntando molto (Tiziana vi racconterà meglio quali sono le novità) e per noi significa sia networking interno tra le associate per le quali organizziamo eventi, sia networking esterno con altre Aziende o Associazioni che condividono i nostri obiettivi. Partecipiamo ad eventi, come questo, tavole rotonde, panel e prendiamo parte a gruppi di lavoro su progetti specifici. Abbiamo ad esempio partecipato, con Inclusione Donna, alla stesura della PdR/125, la norma per la certificazione sulla parità di genere. Attività concrete quindi perché la concretezza è un aspetto che caratterizza la nostra Associazione.  Noemi Giammusso: Comunicazione Phygital per fare cultura sul gender gap fuori e dentro il web. La mia domanda è: Ti andrebbe di raccontarci come vi state prendendo cura della vostra community in modalità phygital? Avete individuato delle leve?   Tiziana Omaggi: In NoiD la comunicazione non è solo digitale per fare rete ma vuole mettere le persone al centro!   La nostra comunicazione phygital pone infatti al centro la community tramite un piano di azioni che stiamo mettendo a terra per offrire alle persone un programma concreto di networking ed empowerment:  Come lo facciamo?  Mettiamo a disposizione le nostre competenze di professioniste della comunicazione che lavorano quotidianamente con la tecnologia, pronte a sperimentare nuovi strumenti digitali, realizzare format innovativi, attivare nuovi canali, con il duplice obiettivo di fare crescere l’awereness di NoiD fuori e dentro il Web.  Cosa stiamo facendo?  Tra le azioni in campo nel 2023 abbiamo attivato il “Networking Tour”, con le prime tappe sulle città di Torino, Milano e Napoli. Per noi è stato un passaggio fondamentale, arrivare alle persone e al territorio, per trovarsi e ritrovarsi insieme nel portare e condividere obiettivi e valori dell’associazione. Il nostro obiettivo è stato quello di avviare i team territoriali per un modello associativo ampio e diffuso, non direzionale e non centrico. Gli incontri sono stati caratterizzati dalla forte energia, empatia ed impegno, e hanno contribuito a raccogliere esigenze e stimoli diversi.  L’attenzione per il valore delle connessioni, e il feedback raccolto sul territorio, ci ha portato a realizzare per la prima volta l’evento estivo in contemporanea in 4 città, Milano, Napoli, Roma e Torino, connettendoci contemporaneamente dalle diverse location durante il discorso della nostra Presidente.  Come prossimi passi punteremo sull’empowerment della nostra community, attraverso un palinsesto di appuntamenti periodici, con l’obiettivo di favorire l’engagement, abbattere le distanze dal territorio e soprattutto avvicinare e farci conoscere.  Il primo format a partire sarà il NoiD Coffee Time, uno short meeting flessibile, sia in termini di orario che di contenuto, che sarà fruibile online (al momento in piattaforma teams), preferibilmente ad inizio mattinata, tutto in meno di mezz’ora.  Il NoiD Coffee Time sarà un incontro di networking ma soprattutto uno strumento di empowerment, dove offriremo alla nostra community 30 minuti aperti con interviste a role model di riferimento, workshop, pillole formative di strumenti digitali, testimonianze/interview di stakeholder esterne.  Ogni appuntamento sarà promosso sui nostri canali digitali, e le interessate potranno iscriversi attraverso un form di adesione disponibile sul nostro sito, a cui seguirà una mail di conferma con tutti i dettagli dell’appuntamento.  Quale migliore occasione quindi per lanciare qui una Call To Action “ Prendi parte al Coffe Time di NoiD, condividi la tua voce ed il tuo progetto con la nostra community!”   Noemi Giammusso: Non solo comunicazione quindi ma anche tecnologia. A questo proposito come si sposa secondo voi il nesso tra donne e tecnologie e come lo promuovete all’interno dell’organizzazione?  Jessica Sabellico: Le donne sono sottorappresentate in molti settori tecnologici, compresi quelli legati a STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica). Questa disparità si riflette nei tassi di occupazione, nelle posizioni di leadership e negli stipendi.   NoiD è fortemente attenta al binomio donna e tecnologie, e al divario in ottica gender gap che ne deriva, anche perché è proprio nel contesto ICT e TLC in cui lavoriamo, che vediamo in realtà quanto l’ambiente tecnologico sia prettamente a prevalenza maschile e quante donne competenti ci sono invece su progetti tecnologici interessanti ma che spesso non ricevono il riconoscimento che meritano come ad esempio avanzamenti di carriera e posizioni apicali.   Partendo dall’ambito STEM, sulla base degli ultimi report a disposizione, è ancora ridotta la presenza di ragazze all’interno dei corsi di laurea, anche se in aumento rispetto all’ultima rilevazione. Se infatti nell’anno accademico 2020/2021 le ragazze immatricolate in area STEM erano il 39,4% (dati Censis), i nuovi dati raccolti da Almalaurea raccontano una lieve crescita. L’Indagine sul Profilo dei laureati STEM rivela infatti che pur essendo più elevata la componente maschile, che raggiunge il 59,1%, quella femminile è salita negli ultimi anni al 40,9.   La

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Di maternità, child penalty e altre riflessioni

Di cosa parliamo quando parliamo di maternità. Di fatto “Il periodo della vita della donna madre dall’inizio della gestazione fino all’allevamento del neonato” (cit. Treccani). Con questo termine si indica anche il periodo di tempo in cui la madre lavoratrice dipendente si astiene dal lavoro obbligatoriamente per 5 mesi – una tempistica che non segue la precedente definizione e che cambia da paese a paese- da fino a due mesi precedenti la data presunta del parto e fino a 5 mesi dopo la stessa. La variabilità dell’inizio e fine maternità obbligatoria dipende – tra le altre cose- dalla volontà della madre lavoratrice dipendente, dal suo stato di salute, dalla peculiarità dell’attività e dagli strumenti che il datore di lavoro può mettere in campo per agevolarla, come lo smart working, in alcuni casi. Per il periodo di 5 mesi di maternità obbligatoria retribuita al 100% ad oggi si può scegliere la formula 2+3, 1+4 oppure 0+5. Da qui in poi scatta il congedo non obbligatorio, di cui un mese retribuito all’80% – secondo la Legge di Bilancio 2023- e il resto al 30%. [Questo articolo non si pone l’obiettivo di essere una guida esaustiva al congedo di maternità, per questo scopo si rimanda il lettore al sito Inps.] Cosa succede prima della battuta d’arresto dei cinque mesi obbligatori di congedo nell’ambito lavorativo della donna? E cosa avviene durante la sua assenza? E poi ancora, al suo rientro, cosa troverà? Come potrà coniugare vita professionale (magari con anche l’aspirazione di crescere) ai primi mesi di vita del bebè? Queste risposte, tutt’altro che prevedibili, avranno un impatto decisivo sulla sua carriera e la sua vita personale. Squilibrio di genere nel mondo del lavoro, Gender Pay Gap e Child Penalty Sfogliando il Rapporto Inapp sono davvero preoccupanti i dati che testimoniano lo squilibrio di genere nel mondo del lavoro: quasi una donna su cinque lascia il lavoro con l’arrivo del primo figlio e la motivazione più comune è proprio la difficoltà a conciliare vita privata/lavoro. Prima della mia gravidanza non conoscevo molte altre neomamme millennial, anzi direi che le mie conoscenti coetanee e mamme si contavano appena. Non è infatti un segreto che di figli non se ne fanno quasi più. In ogni caso, rispetto al mio contesto, prima della mia gravidanza avevo a che fare quasi solo con donne in attività lavorativa. Adesso invece che frequento contesti dove mi è più facile conoscere altre mamme -un network di sorellanza pazzesco- scopro che molte di loro decidono di lasciare il lavoro dopo il primo figlio o di accontentarsi di un impiego modesto mentre il partner cresce professionalmente o almeno si ritiene soddisfatto della sua sfera professionale. Alcune mi dicono che per riprendere a lavorare devono assumere una baby-sitter ma che costa troppo, o che gli asili sono di difficile accesso. Che non ce la si fa coi costi e che tanto vale rinunciare a uno dei due stipendi in casa, poiché uno dei due si riduce a pagare le sole spese, finendo comunque per perdersi dei momenti con i figli che non torneranno. E così alcune di noi rinunciano alla propria carriera, quindi allo stipendio. Quindi alla propria indipendenza. Questa si chiama #ChildPenalty. Mamma o lavoratrice? Da dilemma a binomio necessario Gioia a parte, la gravidanza è un’esperienza forte, il parto non ne discutiamo proprio e il resto poi è tutto in salita. Incluso le scelte di vita che ne conseguono. E dire che per chi la desidera, la maternità è uno dei momenti più pieni e felici della vita. Peccato debba coesistere questo contrasto in cui, a volte, sia necessario scegliere se fare la mamma o la lavoratrice. O, in alcuni casi, a rinunciare a scalare la vetta di quel famoso soffitto di cristallo. La maternità viene dunque vissuta come una fragilità in un contesto sociale in crisi. Diviene fondamentale che tutte le aziende – attori sociali del cambiamento e comunità inclusive – si attivino per contrastare il Gender Gap che si rivela nella maternità. Un passo significativo potrebbe essere la firma del Codice di autodisciplina, che viene proposto liberamente a tutte le imprese per sostenere la maternità, con lo scopo di arrestare la decrescita e incentivare la natalità, favorire la continuità di carriera delle madri, sostenere economicamente le iniziative di cura e educazione dei figli. Anche confrontarsi con le linee guida della Certificazione per la Parità di genere UNI/Pdr 125:2022, è un’occasione per scoprire se la propria azienda sia compliant con i requisiti richiesti per ottenerla e dunque attivarsi in tal senso. Ma non basta. Per quanto si possa generalizzare omologando procedure e regole nel tentativo di regolamentare i bisogni di gestanti e neomamme, e bilanciare la genitorialità, ogni esperienza è a sé ed effettivamente questo è l’unico assunto certo per tutte. Il primo mese e mezzo basta a mala pena a riprendersi dal parto, capire se e come avviare l’allattamento e gestire il bebè. Dai due mesi inizi a mettere piede fuori casa, a rimescolarti col mondo esterno e con gli altri. Siamo arrivati a tre mesi. Epoca dei primi vaccini. Ricominci a sentire il tuo corpo più sgonfio, a sentirti più serena. Il rapporto con il bebè si intensifica, la sua energia aumenta e il nuovo assetto familiare va pian piano saldandosi. Arrivano lo svezzamento, la dentizione eccetera. Come si può pensare che tre o cinque mesi possano bastare per affrontare questa montagna di cambiamenti, rimettersi in sesto, sistemare i nuovi equilibri e tornare al lavoro a pieno regime, millantando una carica energetica che neanche venti giorni di ferie restituiscono? Ci dicono che l’epoca delle eroine è finita. Eppure, le sento già alcune donne dire “e io come ho fatto ai miei tempi?!”. Beh credo che il modello del sacrificio non sia la soluzione. Certo, forse era ed è tutt’ora l’unico modo per avanzare professionalmente. Una donna dovrebbe avere il diritto di fermarsi per il tempo che lei ritiene necessario al fine di avviare il bebè nel mondo nei suoi primi anni di vita, come avviene in altri stati

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I nostri consigli di lettura per l’estate

Cosa ci fanno insieme un primatologo, una storica, un giornalista, un’imprenditrice e due scrittrici doc di generazioni completamente diverse? Sono gli autori di una selezione di libri che vogliamo suggerirvi per le vostre vacanze. Eccoli in rigoroso ordine alfabetico perché a noi sono piaciuti tutti: Eva Cantarella: “Gli inganni di Pandora. L’origine delle discriminazioni di genere nell’antica Grecia”, ed. Feltrinelli. L’autrice racconta di una vicenda lunghissima, che dal mito giunge ai medici e ai filosofi che hanno fondato il pensiero occidentale. Siamo abituati a pensare ai greci come alla culla della nostra civiltà: a loro dobbiamo l’idea di democrazia, la storiografia, la filosofia, la scienza e il teatro. Di questa magnifica eredità però fa parte anche un bel fardello: il modo in cui consideriamo il rapporto tra i generi, quello che oggi definiremo bias di genere. Frans De Waal: “Diversi. Le questioni di genere viste con gli occhi di un primatologo”, ed. Raffaello Cortina. Dall’osservazione del comportamento di esseri umani e degli altri animali, il primatologo di fama mondiale mette in dubbio le convinzioni ampiamente diffuse su mascolinità e femminilità e le opinioni comuni su autorità, leadership, legami filiali e comportamenti sessuali. Con umorismo, chiarezza e sensibilità, il libro amplia la discussione sulle dinamiche di genere nelle società umane, promuovendo un modello inclusivo capace di abbracciare le differenze, invece di negarle. Pietro Greco: “Trotula. La prima donna medico d’Europa”, ed. L’asino d’oro. Trotula de Ruggiero è la prima donna medico d’Europa. La prima ad aver coltivato nell’XI secolo una ‘medicina per le donne’: la ginecologia. Ha curato le malattie, ma si è anche occupata di bellezza e benessere delle donne. A lungo osannata e poi disconosciuta, la sua esistenza persino negata. Qualcuno ha detto che mai e poi mai una donna avrebbe potuto fare nel Medioevo le cose che ha fatto lei. Una lettura che fa ricredere sul ruolo della donna nel periodo considerato tra i più bui della nostra storia. Michela Murgia: “God save the Queer. Catechismo femminista”, ed. Einaudi. Come fai a tenere insieme la tua fede cattolica e il tuo femminismo? È una domanda che Michela Murgia si sente rivolgere di continuo. Può esserci un compromesso tra la propria coscienza e i precetti in merito all’aborto, all’eutanasia, alla fecondazione assistita? Partendo dalla rilettura del Credo e attingendo alla propria esperienza personale Michela Murgia fornisce gli strumenti per affrontare alcune di queste contraddizioni e mostra come la pratica della soglia che rigetta l’appartenenza a un unico recinto, cioè la queerness, sia una pratica cristologica. Goliarda Sapienza: “L’arte della gioia”, ed. Einaudi. Si tratta di un libro postumo rifiutato dai principali editori italiani e che, stampato in pochi esemplari da Stampa Alternativa nel 1998,  riceve il giusto riconoscimento solo dopo la sua uscita all’estero. Modesta, una donna vitale, scomoda e immorale, secondo la morale comune, è la protagonista del libro. Una siciliana in cui si fondono carnalità e intelletto, che attraversa bufere storiche e tempeste sentimentali protetta da un infallibile talismano interiore: «l’arte della gioia». Amica generosa, madre affettuosa, amante sensuale, Modesta attraversa la storia del Novecento con quella forza che distingue ogni grande personaggio della letteratura universale. Riccarda Zezza: “Cuore (core) business. Per una nuova storia d’amore tra persone e lavoro”, ed. Il Sole 24Ore. Possiamo riumanizzare il lavoro e trovare motivi per rimetterci il cuore, riscoprendo la passione, amplificando il nostro benessere spirituale e fisico? Riccarda Zezza, prova a rispondere in questo libro, un manifesto per ridefinire i posti di lavoro e le carriere e allinearli alle aspettative moderne. È un libro tempestivo, che tocca tematiche urgenti in un mondo del lavoro sempre più permeato dalla tecnologia e dall’influenza diffusa dell’intelligenza artificiale. Se ne leggerete almeno uno fateci sapere cosa ne pensate, qui o sui nostri canali social. Vi aspettiamo a settembre, carich* e motivat* per proseguire insieme nel nostro cammino verso il superamento del gender gap. Il team Comunicazione NoiD Telecom

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